La Storia, maiuscola, corre per
settecento fitte pagine verso una fine nota: è la storia di quella fine (un
bambino trovato morto in casa al Testaccio, a Roma, la madre impazzita, e una
cagna pastore che vigila gelosa sulla catastrofe). Un romanzo che è quindi una
sfida. A ritmo sostenuto e quasi aggressivo: un atto di furore. Ma con stilemi
che avvincono poco, a meno di volersi vittime.
Una storia quindi di vittimismo? Purtroppo
sì: la Storia non siamo noi, la Storia è fascista - e anche, si diceva
quarant’anni fa, “La Storia”uscì nel 1974, padronale. Un romanzone, un romanzaccio.
Un concentrato moltiplicato delle saghe dei “vinti”: stupri, bombardamenti,
fame, malattie, pene e affanni non hanno rimedio e non hanno fine.
Una storia a sé, in questa edizione che
riproduce quella ET, dei tascabili Einaudi, è la prefazione di Cesare Garboli,
1995, disinvolta e opportunista. Che Morante mette in lista con Stendhal, Victor
Hugo (“I miserabili”) e Dickens. Una caricatura di apprezzamento, forse non
involontaria - Garboli sarà subito dopo il curatore delle opere di Elsa Morante.
Dopo averlo detto, nella memoria, “famigerato e discusso”, “didattico e
puntiglioso”. Tutto sbagliato, dice rileggendolo: “Ho cercato invano i lezii e
i diminutivi che mi avevano infastidito vent’anni fa”. Che però, purtroppo, ci
sono. E non solo i lezii. È vero che “La Storia” non è il romanzo ”indignato,
ribelle, polemico, ideologico” sotto la cui coltre la memoria del critico lo
aveva seppellito. Ma non è nemmeno, non può essere, il “romanzo gaio, arioso,
e… «divertente», pieno di humour” che
Garboli pretende. Né “metafisico e sapienziale”. Se non nel genere favolistico,
con cui Morante era cresciuta.
Questo forse “La Storia” è: una lunga
fiaba. Il segreto del suo immediato successo, con 600 mila copie all’uscita –
il record dell’editoria italiana fino a “Gomorra”. Benché corposa, la
narrazione ha andamento fiabesco. Con interpolazioni di filastrocche e
poesiole, e interlocuzioni
paradialettali – romanesche, cosentine – di tipo fanciullesco. Fiabesco
l’uso di nomignoli e diminutivi (che tanto avevano infastidito, anche Garboli),
e i ritmi, le interiezioni, le metamorfosi, spesso istantanee, molte delle
digressioni, e la digressione stessa. Il tratto fiabesco dei debutti Elsa
Morante ha conservato in tutta l’attività posteriore, di racconti, romanzi e
poesie. Le stesse cronologie degli eventi importanti, che qui antepone a ogni
capitolo, evocano più che dire, lontane dalla rete-verità che si supporrebbe.
Garboli lo dice a distanza un romanzo-programma
– uno dei tanti degli autori in età sorpresi dall’onda d’urto del Sessantotto.
Questo è possibile, la scrittrice fu molto amata - otre che sempre
violentemente innamorata, di Moravia, Bill Morrow, altri anonimi, e perfino
Luchino Visconti e Pasolini. E più amata dagli ex del Sessantotto. Confluisce
anche il programma dichiarato: la denuncia di “uno scandalo che dura da diecimila
anni” – il male nel mondo, il male dei poveri. Ma “La Storia” non è violenta, è
anzi anti-violento. Né rivoluzionaria, nemmeno in petto. Perfino filotedesca, per pacifismo preconcetto: benché
una traccia delle persecuzioni degli ebrei sia visibile nell’ammasso delle
disgrazie, non è antitedesca – un caso unico.
La
Liberazione non libera
“La
Storia” si vuole una polemica contro la Storia, con la vita minima e misera di alcuni
quartieri – allora – popolari di Roma. Di pezzi diversi di quartiere, che si
combinano in una mappa della frustrazione costante. Questa polemica “non storia”
la scrittrice impianta polemica storicamente, ogni capitolo facendo precedere
da larghe cronostorie, annuali o periodiche. Si comincia anzi con una cronologia
politica, dal 1900 al 1941. Cui segue però, in epigrafe, questo incipit della narrazione:
“Un giorno di gennaio dell’anno\ 1941\ un soldato tedesco camminava\ nel
quartiere di San Lorenzo a Roma…”
È l’avvio di un ciclo, per il bene e per
il male. Da “La Storia” un filone è germogliato vent’anni dopo – in una con la
prefazione-peana d Garboli - e ancora dura. Sull’emigrazione, interna e esterna,
il duro lavoro, le disgrazie sempre in agguato, la povertà imbattibile e, se altro
non concorre, la malattia o l’incidente, mortali, con corredo di stupri, fuori
e dentro la famiglia, incesti, pedofilie, prostituzioni. Anche nella modalità
della narrazione: un polverio di storie piccole e minime. In un quadro
prospettico classista, della violenza che si esercita sui piccoli e indifesi,
più che tra di essi. In tutto il ventaglio immaginabile: sociale, politico, bellico,
razziale, di genere (il genere” c’era prima che si costituisse in genere),
fisico, fisiologico, mentale, alimentare.
Si legge – questo è importante per un
romanzo popolare? Si legge. Con costrutto? Troppo insistito per essere
convincente – per “prendere”. Eco, appassionato del “fogliettone”, del romanzo d’avventure,
non ha trovato modo di occuparsene. Molto connotativo, ma nel senso del
folklore. E senza fantasia. Un esercizio oratorio sempre vivace ma a pialla, un
bulldozer.
Il “Corriere della sera” ripubblica il
romanzo nella collana dedicata alla Resistenza per i settant’anni della Liberazione.
La Resistenza c’è, ma in una liberazione che non libera, dopo i nove mesi di
occupazione tedesca di Roma. Anzi deprime, con personaggi e fatti anch’essi
immersi nel cono della morte, del
disfacimento inevitabile. Con una dedica “all’analfabeta per il quale scrivo” –
in spagnolesco, eco di Garcia Marquez, “El coronèl non tiene quién le escriba”.
Elsa Morante era soprattutto una donnina affaccendata.
Elsa Morante, La storia, Corriere della sera, pp. 622 € 7,90
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