Un’allegra storia di vecchiaia. Dove si
cumulano altri fallimenti, e si incassano nuovi dividendi. Attorno a due mostri sacri, il grande musicista e il grande
cineasta, rinchiusi in una spa
conventuale, un centro benessere – si dice sia il Berghotel Schatalp a Davos,
lo stesso dove Thomas Mann ambientò “La montagna magica”. Testimone ubiquo e
muto l’alter ego, anche somatico, del regista: l’attore di cinema re degli
incassi incerto sul senso della storia – finirà per immedesimarsi in
Hitler.
Un film allegro benché claustrale – si
tratta di (ri)vivere da vecchi i sogni e i giochi da bambini, da ragazzi. Sottilmente claustrofobico benché immerso tra
i prati smeraldini delle Alpi - ma è il proprio dei sogni. Per la Spa o Kurhaus dominante, monumentale e
vuota, sempre tristemente alla moda oltralpe – e più per le storie letterarie e
artistiche che si vuole vi si dipanassero, soprattutto gli adulterii in età
matura. Ma in controtendenza con le tematiche funeree, sesso esplicito
compreso, del festival di Cannes dove il film ha esordito: si potrebbe dire le gioie
della malinconia. Di una tristezza avvertita, matura, nei vecchi come nei
giovani, che sanno guardare oltre. La malinconia cui la letteratura ci ha avvezzati vuole
morti e rovine, quella di Ossian, Foscolo, Senancour, del romanticismo in
genere, qui siamo oltre la tristezza, come a una ripartenza, consapevoli della
fine. Solo l’intellettualità vacua è bollata (“Strawinskij
una volta mi ha detto che gli intellettuali non hanno gusto”), sotto forma
di sceneggiatori di cinema assorti e
sciocchi.
Un film nuovamente felliniano, come “La
grande bellezza”, e personale. Infiniti gli echi e i calchi. Sophia Loren al
debutto nelle forme di Madalina Ghenea, con lo stesso sguardo sottomesso e sfidante,
oltre che con le forme prorompenti. Lo Steiner-Alain Cuny della “Dolce vita” nel
regista Harvey Keitel che sceneggia “L’ultimo giorno di vita”, l’ultimo suo
film, prima di uccidersi. Il regista inseguito dalle sue attrici - i suoi fantasmi - nel prato, in maschera. Madalina Ghenea sull’acqua alta in piazza San Marco
come Anita Ekberg nella fontana di Trevi
Per molti versi Sorrrentino sembra un avatar,
buono, di Fellini. Per il gusto delle immagini, che si diverte in ogni film a
rifare. Ha perfino il “suo” attore, Toni Servillo, come Matroianni per Fellini.
Che a un certo punto anche lui abbandona – qui per Michael Caine. Altrettanto
innamorato della cinepresa, del mestiere – qui improvvisa pure il videoclip, e lo fa con maestria, senza respiro, più rapido del videogame. Se “La grande bellezza” era la sua “Dolce
vita”, questo “Youth”“ è il suo “8 e 1\2” - o piuttosto il suo “Amarcord”.
Ma, poi, Sorrentino scrive i suoi film –
filma i suoi romanzi - mentre Fellini li disegnava. Li scrive e li sceneggia da
solo. Qui irride la truppa dei cosceneggiatori che normalmente fa corona al
regista di un film. E non improvvisa. Fellini, che era
stato sceneggiatore di Lattuada, Germi, Comencini, amava lavorare con sceneggiatori
di genio, Zavattini, Flaiano, Tullio Pinelli, Tonino Guerra, Brunello Rondi,
Pasolini – oggi, certo, dove li troverebbe Sorrentino? Ma sul set improvvisava,
lasciandosi trascinare dagli umori e dalle immagini stesse. Sorrentino vuole personaggi,
anche marginali, con una storia, costruiti, mentre Fellini li voleva episodici, meglio se in maschera, e esagerati. Fellini è autofictivo nei film
maggiori, compreso “Casanova”, e eccessivo, “espressionista”. Sorrentino è un
narratore, limpido, non intromettente. Della stessa forza malinconica, ma
sottile. Ugualmente invadente, forse ossessiva, ma non gridata.
Paolo Sorrentino, Youth
Paolo Sorrentino, Giovinezza. Youth, Rizzoli, pp. 194, ril. € 17
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