Un manuale di libertà sessuale, prototransgender.
In altre prose Genet è beatamente pedofilo, il che oggi lo ostracizzerebbe, ma
è agli atti come liberatore. Qui accumula storie di “froce femmine e froci maschi”.
Sbalzate dalle mura di una cella che si compiace di dire il suo habitat, popolate
di figure maschie ritagliate. Impegnato a imporci il bello dell’orrido, che ripetutamente
teorizza: sporcizia, sudori, escrementi, puzze, sperma, percosse, trivi e
quadrivi, carceri, buglioli, coltelli, malignità e cattiverie, tradimenti,
spiate. E il collaborazionismo, sotto la forma morbida di fascinazione per i
tedeschi marcianti, che “inconsapevoli, fecondanti come polvere d’oro, scesero
su Parigi”. Che vede biondi e angelici, anche quando comandano le stragi. Con
contrappunto di pietà religiose: messe, comunioni, Sacri Cuori trafitti,
Benedette Soubirous, Gesù Bambini in fasce, e il ritornello del “Veni Creator”.
La trasgressione come legge, nella crudeltà come nella pietà.
Un mondo che Genet vuole sordido. Di piccole
insignificanti passioni, e vite perdute che non si vorrebbero neanche destini.
Niente sociologia, niente politica, un immane ghirigoro e un esercizio di bello
stile. O esercizio teatrale: “Amo l’impostura”, proclama onesto. Nel mentre che
afferma l’omosessualità del secondo Novecento, altra da quella sofferta e goduta
di Gide e Wilde, Whitman e Forster, Isherwood e Auden, o anche, nuovissima, di
Edmund White – nonché da quella indagata e
rappresentata dal lato femminile, Rachilde, Renée Vivien, Natalie Clifford
Barney, Delarue-Mardrus, Sackville-West, Schwarzenbach.
Successo enorme di scandalo a suo tempo,
e generazione fertile, seppure non dichiarata. Di Gore Vidal per esempio, e di
molto beat. In Italia di molto
Pasolini, nella poesia, e nei romanzi fino a “Petrolio”. Dei tanti epigoni di
Pasolini, fino a Siti. Di Busi. Di Testori. Di Arbasino narratore, e di alcuni suoi
stilemi ricorrenti: l’anacoluto, il narrativo riflessivo, la digressione
costante. Un classico del maledettismo, bellico e postbellico.
È anche un primo caso di autofiction, datato 1942. Spudorata, e
ancora oggi eccessiva – affannosa, costruita, interminabile. Di una maledizione
molto in posa: ben scritta, manierata. E crepuscolare negli effetti, compresa
la prigione, il giudizio incombente, la ghigliottina. Una celebrazione quasi
sacerdotale del transgender, la
cleptomania, la prostituzione, lo sfruttamento. Anche borderline, ma di trasgressione compiaciuta e non sofferta, perfino
paludata. Atteggiata e non veritiera, la verosimiglianza Genet bollando “la
sconfessione delle ragioni inconfessabili”. Nella ricercatezza – e
nell’abiezione costante – il sacrilego stinge.
Una celebrazione che è una sorta di lager del sesso: il sesso come
costrizione, triste, da moralista. Una mostra del sesso più che un dramma o una commedia - forse non contro le intenzioni. O un piano quinquennale della deiezione.
Seppure non materialista, e anzi con spreco di devozioni e magie. Il
maledettismo più che la maledizione, nel tedio del sesso. La traduzione sempre
incredibilmente agile di Dario Gibelli vent’anni fa, che il Saggiatore
ripropone, non sopperisce alla stanchezza - una prima traduzione nel 1975, di Giorgio Caproni, per lo stesso Saggiatore, era limitata a circa un terzo della stesura originale, traduttore e editore italiani avendo ulteriormente ridotto la censurata edizione francese (era la prima traduzione della narrativa di Genet in italiano, ed era una antologia).
Schiacciato
da Sartre
Non si parla più di Genet. Questo
“Notre-Dame-des-Fleurs” si ripropone più per le parti censurate nella prima edizione
pubblica, Gallimard 1951 – il racconto circolava sotto banco – dopo il successo
a teatro delle “Serve”. Come se fossero pruriginose, mentre non lo sono più, e
semmai peggiorano la lettura, aveva ragione il redattore censore di Gallimard. Genet
è rimasto schiacciato dal biografismo che Sartre gli ha imposto. E
dall’accumulo, sempre sartriano, di notazioni fenomenologiche e esistenziali di
cui l’autore avrebbe fatto forse meglio a meno. Un autore che ha squarciato –
insieme con Céline, che però veniva da più lontano - la buona letteratura
francese di metà Novecento, virtuistica (politicamente corretta, allora “impegnata”)
e costruttiva (cioè decostruttiva). Ha impiantato il teatro dell’assurdo, la
scuola dello sguardo, e altre avanguardie. E ha liberato i manierismi
omosessuali. Nella tradizione del “maledetto”, di un Villon sempre all’ombra
della forca-ghigliottina, ma più vantone che disperato. Aggiornato col sesso, quello
solforoso da vespasiano, ma con scene, parole e sintassi ricche e variegate –
il vero godimento dello scrittore. “Un frammento della mia vita interiore”,
Genet propone, raccontato con “la voce del sangue”. Ma l’inchiostro è già
sbiadito – inodore, insapore.
Effetto della novità dirompente, la
crudità (crudeltà) sessuale, questo Genet è stato oggetto all’uscita di studi importanti
che lo hanno seppellito invece di spiegarlo. Quello monumentale di Sartre,
“Santo Genet commediante e martire”, tanto delirante che più non si ristampa, e
quello critico di Bataille, subito pubblicato in “Critique”, e ora in “La
letteratura e il male”. Sartre ne fece la pietra d’inciampo per “mostrare i
limiti dell’interpretazione psicanalitica e della spiegazione marxista”. Per
“provare che il genio non è un dono ma l’esito che s’inventa nei casi
disperati”. Per fare “la storia di una liberazione”. Con esito opposto. Tahar
ben Jelloun, che ha frequentato Genet nei suoi ultimi anni, in Marocco e a in
Francia, lo dice lontano e anche polemico nei confronti di Sartre e de
Beauvoir.
Analogo l’effetto di Bataille, anche se
con più ragione, essendo il suo intento critico. La “trasgressione illimitata”
isola e sterilizza Genet. Col “male approfondito”, il “male perfetto”, della
triade furto, prostituzione e tradimento, Genet si esclude dalla “comunità
morale”, e quindi dalla comunità. Dalla “ipermorale” che Bataille vuole dalla
buona letteratura e nega a Genet – che però non dovrebbe essere uno stigma per
Bataille, autore in proprio di fredde esercitazioni orgiastiche che sono invece
il segno di una perversione (qui il senso è chiaro) illimitata, e dunque del
male. L’effetto fu di isolare Genet, “mostruosizzarlo”.
Teatro
Alla rilettura, e senza più lo scandalo,
che è anzi la sua zavorra, con più evidenza Genet è Villon. E uomo di teatro.
Già alle prime prove d’autore, che furono narrative, qui riassemblate, di
sesso e perversione. Perversione? Bisogna intendersi, Genet è sempre teatrale:
la falsificazione, il rovesciamento, il travestimento, la reversibilità dei
contrari sono la sua seconda pelle. Subito dopo scriverà “Le serve”, che gli
varrà l’immediata messinscena di Jouvet, e la canonizzazione come pietra di
fondazione del “teatro dell’assurdo” – portandolo all’attenzione di Sartre e
Gallimard, alla pubblicazione spettacolare dei testi “proibiti”.
Il Saggiatore ripropone l’edizione di
Dario Gibelli. Che la dice “una rappresentazione rituale”. Genet stesso
menziona a un certo punto la sua “logica teatrale”. È la traccia su cui si può
e si dovrebbe rileggerlo – tentandone magari un assestamento, dopo lo scandalo
e l’oblio: scrittore di teatro. Compreso il suo personale “teatrino” di bambino
abbandonato, ladro, battone eccetera. Fu la sua ambizione tutta la vita, anche
se resta narratore, con una sola commedia in repertorio – è molto rappresentato
invece al cinema, con una dozzina di titoli che a lui si rifanno, e più tematicamente (in tre o quattro opere, per esempio, in questi giorni al festival di Cannes). Troppo
letterato per essere un buon autore e uomo di teatro, ma con
quell’insopprimibile esigenza: tutto vede e rappresenta come in scena.
Jean Genet, Nostre-dame-des-fleurs, Il Saggiatore, pp. 259 € 17
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