Albero - È slancio verso
l’alto. Non a freccia, o missile: nel tempo, nella complessità. Nella
rettitudine. È la nudità, composta. Di endurance,
costanza. Di resilience, elasticità. Di
forza interiore, visibile, condivisibile, ma non esibita. Invadente a volte, ma
senza iattanza. Della durezza della manovalanza, ma non arida.
Un
castello amichevole, aperto, al fanciullo. Pieno di segrete, scale, torri, ma non
inaccessibile – una sfida invitante, sorridente.
La
regolarità della rinascita ne è la segreta forza (attrattiva).
Socrate
sembra ripudiarlo, l’albero come ogni forma di vita naturale. Che diceva: “Sono
uno che vuole imparare. La campagna e gli alberi non vogliono insegnarmi nulla,
i miei concittadini invece sì”. Sarebbe la veduta di un inurbato recente, un
entusiasmo povero. Ma è un’esclusione retorica, per valorizzare l’impegno di
cittadino, e un poco antifrastica - “non vogliono”, anche perché sono muti; ma
possono.
È
anche un simbolo: della volontà di vita. Dell’irriducibilità dell’essere. A suo
modo “La cosa” di Howard Hawks, il film del 1951 (“La cosa da un altro mondo”),
che va distrutta perché è in un film di fantascienza horror, e per di più è
emofaga, è vegetale e a suo modo indistruttibile.
Analogia - Ciò che non evoca nulla non esiste. I nomi
sono evocativi (storia, etimologia, evoluzione, senso), gli attributi
ovviamente, e i verbi.
Ma
è un riflesso e un rete di fondo, un liquido amniotico. Non un’azione\ragione –
non direttamente.
Capitale – È il cardine
dell’esistenza umana, oltre la
sopravvivenza – l’accumulazione, ne è la dinamo. Altrimenti è la sopravvivenza.
Accumulo di dati, di memoria, di esperienza, di insorgenze, di incidenti anche,
eventi non voluti e non nell’ordine delle cose. Si vede anche nei pets rispetto alle stesse specie brade:
la domesticità (agi, cibo, calore) ne cambia la vita e (molto) la natura
rispetto alle stesse specie lasciate allo stato brado (caccia e procreazione).
L’uomo che dovesse ogni giorno cominciare daccapo (caccia, riparo, coppia)
sarebbe un animale: un vertebrato perfezionato, di durata breve).
Collera – È
autopunitiva. L’impeto può essere inefficace contro l’esterno (cose, persone,
eventi), ma lo è sicuramente contro il soggetto – la tranquillità d’animo, la
volontà soddisfatta. È una delle non rare antinomie della personalità, un io
autolesionista, masochista, ancorché involontariamente e inopinatamente. Valéry
la assomiglia a “un uomo così affamato che, per placare la sua fame pazzesca, si
mangerebbe le mani” – si dice infatti “mi mangiavo le mani” dalla rabbia, si
dice da sopravvissuti.
Si
vede nella coppia, il rapporto sociale più ravvicinato e stretto. Si rinsalda litigando
per questo effetto – quando ne prende coscienza. Si divide litigando, allora interminabilmente,
distruttivamente. L’autodistruzione si vede dalla frequenza degli uxoricidi.
In senso proprio più spesso opera del
maschio (più massiccio fisicamente e quindi più manesco?) , ma più frequente, e
opera femminile, come uxoricidio legale (riduzione in povertà, stalking,
cancellazione della patria potestà).
Lo
conferma per converso la coppia nel sentire germanico, anglosassoni compresi, in
cu la stessa energia vene impiegata in positivo, evita do di autodistruggersi,
per rivitalizzare in altro contesto e con altra persona lo tesso rapporto di
fiducia e di abbandono. Nel mondo germanico anche con rapporti plurimi, in costanza
di matrimonio, con le amicie amorose, legate al lavoro, agli hobbies, alle passioni
culturali, naturalistiche, di viaggi, etc.
Domanda – È già una
risposta. Ne implica una: non è gratuita n fortuita. Non solo nel’interrogativa
negativa, o affermativa. Si fa una domanda nel quadro di una risposta,
possibile e auspicata. È la ricerca di una conferma. – di un’ansia, un timore,
un presentimento. Talvolta cioè per escludere la risposta: quando la
drammatizzazione s’inscena se questa – la risposta attesa – arriva.
Don Giovanni – Se ne registrano
quattro: il cacciatore, il collezionista, il virtuoso, e il primo, che era o si
voleva un’artista. Un artigiano sensibile più che un genio: orafo di belle
collane, pittore di scintillanti colori, musicista di piacevoli melodie. Manca
quello caratteristico: il “cavaliere”, un po’ effeminato quindi, e per questo angosciato:
un po’ timoroso, ma soprattutto nevrotico. Per una sorta di sindrome da
seduzione - simpatia, attrattiva, serrvizievolezza. Che si potrebbe dire “sindrome
don Giovanni”.
Essere – “Essere o non
essere”, il monologo amletico, è suggestivo, e tetramente anche profondo, ma è fine
a se stesso, alla sua bellezza: non scopre e non insegna nulla. Evoca molto e
non dice nulla, neanche il tragico che lo sottende. È come la filosofia dell’essere
e dell’esistere. Che però non è teatro, non ne ha il fascino, il potere di
suggestione – una catena è anzi di sentenziosità, una corrida definitoria, la
sagra degli infiniti e degli aggettivi composti, un’arrampicata sugli specchi.
Spirito – Ignazio di
Loyola lo vuole una rappresentazione. Una scenografia. La “composizione del luogo”
è preliminare agli “Esercizi spirituali” del devoto: alle riflessioni, ai
proponimenti conseguenti.
Sogni – Sono realisti
e mai ipotetici. Lasciano tracce realistiche, quelli che ne lasciano, anche
quando sono ipotetici: l’incontro familiare con una persona mai vista prima, la
frequentazione di luoghi favolistici, o ambientazioni esotiche.
Sono
immediati – anche perché brevi e brevissimi, pure quelli ritornanti e
ossessionanti. E sempre coinvolgenti, anche se il soggetto non è inscena – sono
i sogni del sognatore.
zeulig@antiit.eu
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