Si ripubblica l’edizione voluta e
approntata da Ripellino nel 1961 per Einaudi, poi riedita nel 1980. Che si
segnala sopratutto per la prefazione. Nella quale c’è di tutto, il Narrenspiel, Solov’ëv e il panmongolismo,
Butor (Butor?), un parallelo tra Pietroburgo e Dublino, e tra Belyj e Joyce. Nonché i rapporti duri tra lo scrittore e il padre, un matematico importante
all’università, Nikolaj Vasil’evič
Bugaev, in odio al quale il figlio prenderà lo pseudonimo Belyj, il Bianco. Ma
non c’è “Pietroburgo”. C’è la città, fredda, cupa, sporca, come c’è nel libro.
Ma non c’è il libro, la storia. E nemmeno Belyj. Lo spiritaccio di Belyj. Forse
Ripellino lo dà per scontato, ma il lettore vorrebbe saperne qualcosa: dopo
aver letto la sua dottissima introduzione non si raccapezza.
La
fortuna di Belyj in Italia sta con Ripellino, che ne provocò la tardiva
scoperta negli anni 1960 con questa traduzione, e negli anni 1980 con la sua
riproposta. Ma lasciandolo nell’oscurità – di cui questa terza edizione sembra
vittima. Si legge avidamente Ripellino, ma con sgomento. Fa di Belyj perfino
“un razionalista”, poiché leggeva Kant, e il neo kantiano Hermann Cohen. Che sa
di bislacco, Belyj visse tra i teosofi: i nipoti di Solov’ëv, Florenskij, Steiner.
L’unica prospettiva, si può dire, che Ripellino non prospetta, di questo
romanzo senza “alcuna prospettiva”, è quella vera, oltre che più stuzzicante:
quella comica.
La storia
è di un atto terroristico in famiglia. Che nessuno in realtà vuole, se non una
volontà segreta, anonima e inafferrabile – le infiltrazione tra rivoluzionari e
servizi segreti sono interminabili. Non succede null’altro, neanche quando la
bomba scoppia: è una storia senza una fine, la fine è il modo di raccontarla.
Che si rifà a Sherlock Holmes – il richiamo a Conan Doyle è l’unico di
Ripellino in tema. Ma anche al futurismo, e al surrealismo: il dettaglismo di
Belyj è molto onirico, al limite del meccanico. Il simbolismo russo è una tarda
professione, post-futurista e pre-surrealista. Le quattrocento pagine si
reggono sull’invenzione costante, di linguaggi di punti di vista, di tempi
sfalsati, di maschere su maschere. Si procede con la moltiplica, a ritmo
accelerato. Si vive una realtà altra, non quella canonica del “personaggio”.
L’attentato
è in realtà un addio al mondo, azionato dalla vittima – al romanzo Belyj lavorò
per oltre un decennio, con riedizioni e rifacimenti. L’addio alla carriera,
all’ordine, alla carriera dell’ordine, alla famiglia, a tutto ciò che nella
figura del padre s’impersona, la moglie in fuga a sessant’anni col cantante
d’opera, il figlio perduto in “una rara forma di squilibrio mentale”. Non la
rivolta del figlio, attentatore suo malgrado, per una serie di equivoci, ma la constatazione della sua inadeguatezza.
In effetti Sherlock Holmes si sarebbe divertito.
Andrej Belyi, Pietroburgo, Adelphi, pp. 384 € 22
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