”Un bel giorno,
Foucault ha imprudentemente suggerito che l’umanità dei tempi nostri cominciava
a imparare ha incominciato a imparare che poteva vivere senza miti, senza
religione e senza filosofia, senza verità generali su se stessa”. Imprudentemente,
a metà opera, lo storico antichista Veyne, impegnato a dare spessore filosofico
all’amico di una vita Foucault, rovescia l’assunto. Sula base di Foucault, che
non si taceva le sue debolezze. E che resta uno storico (“archeologo”). Anche,
a tempo peso, fra una ricerca storica e l’altra, filosofo della storia, ma
senza molto impegno, e non preciso né attendibile. È che il lavoro di Veyne, un
omaggio all’amicizia, è impegnato a puntellare Foucault in ogni punto debole, e
a emendarne le sbandate.
Sul piano
personale, un ritratto seducente. “Esile, elegante e tagliente personaggio, che
niente e nessuno faceva indietreggiare, e la cui scherma intellettuale
maneggiava la penna come se fosse una sciabola”, “il buon sessantottardo”, dal
“sottile profilo con scoppi di risa”. Un intellettuale d’azione, goloso della
vita, il 68 in piazza, le canne, l’Lsd, e le black rooms a san Francisco,
nelle pause dell’insegnamento a Berkeley, da cui uscirà mortalmente infetto nel
1984, quando ancora di Aids si sapeva poco e non si diceva niente. Ma uno che
sapeva a memoria tutto Char, il poeta, e non si voleva un eversore contro la
verità, la moralità e la normalità: “Niente di tutto questo: non ha fatto che
proporre delle riforme circostanziate
(come la soppressione della pena di morte), e non insegnava l’anarchia e
la dissolutezza”. Un scrittore. Di sinistra, senza essere di partito, né
fazioso, neanche nella sua propria difesa. Riformatore sempre in moto: sulla
follia, la malattia, la pratica linguistica, il sesso, la cura di sé, Khomeini
e la rivoluzione gentile. Esploratore instancabile, e uomo di pensiero
inflessibile, diretto piuttosto che ironico.
La
testimonianza è appassionante, oltre che leggibile, anche nella ricostruzione delle
idee. Che Foucault lega allo scetticismo, al relativismo, a Heidegger molto,
seppure in modo molto diminutivo per il filosofo svevo, e soprattutto a
Wittgenstein – Foucault chiama “giochi di verità” quelli che Wittgestein chiama
“giochi di linguaggio”. L’archeologo alla ricerca di “dispositivi” - in vece delle
“strutture”. Nell’ambito del “discorso” – “termine scelto male”– che è il
quadro formale attraverso il quale conosciamo. L’Idealtypus di Max Weber – e l’
“opinione” di Nietsche? La “cosa in sé” di Kant riportata alla singolarità. Mai
definito ma sempre evocato lungo gli anni, “con le parole di discorso, ma anche
di pratiche discorsive, di presupposti, di epistemè,
dispositivi…”. Anche mobili, anzi “erranti”: le mutazioni sono ininterrotte nei
secoli, benché misteriose. Più o meno analoghe ai modi (attributi) di Spinoza,
alle monadi di Leibniz, ai multipli di Platone.
Foucault
non potrebbe non concordare, che la storia vedeva “come una successione di
fratture”. Come “antropologia empirica”. E “opera di teatro”: capire ciò che
gli altri dicono e fanno è mestiere di attore (mettersi nella pelle dell’altro)
e di drammaturgo (trovare le parole per dirlo). Una rappresentazione sarebbe il
termine più esaustivo.
Paul
Veyne, Foucault. Il pensiero e l’uomo,
pp. 197 € 19
Nessun commento:
Posta un commento