Corruzione – Può essere buona, produttiva. A Città del
Messico e al Cairo, pagato il dovuto di quei corrottissimi paesi, i 30 km.
della Civitavecchia Nord-Tarquinia, tutti in piano, sarebbe stati approntati in
trenta mesi, anche venti con un premio, mentre in Italia, dopo cinque anni,
niente si vede. Succedeva a Palermo negli
anni dei Ciancimino e Lima, i politici che mantenevano le promesse: la città costruiva,
si allargava, patrimoni si accumulavano, e c’era perfino l’acqua. O in Grecia nelle grandi opere degli anni
socialisti, quando il debito si moltiplicò. Uno passava a Ioannina vent’anni
fa, città chiusa dalle montagne e reclusa nel suo passato, coi nidi della
cicogne sui pali della luce, e l’anno dopo la trovava un’altra, con viali,
giardini, luci, edifici pubblici, una piccola capitale.
Non
c’è paragone con l’Italia, dove la corruzione è fine a se stessa. Le opere per
l’Olimpiade del 2000, che avrebbero indebitato disastrosamente la Grecia, sono
state e restano un capolavoro. La metropolitana di Atene è accessibile, le
scale mobili funzionano, ariosa e aerata, non claustrofobica, rapida, pulita,
con stazioni bene intrattenute e affidabili, non paurose. Nessun paragone con
quella di Roma o di Milano, che pure sono costate molto di più del necessario.
La
corruzione vera, o allora doppia, corruzione-corruzione, è quella interessata
solo alla corruzione. È il caso delle opere pubbliche in Italia. Poche vanno
avanti, cioè si realizzano. Tra esse paradossalmente la più importante e
progredita è la Salerno-Reggio Calabria. La Civitavecchia-Livorno è invece un
cantiere dell’intrallazzo: varata quattro (o cinque) volte in quarant’anni, ma
solo per lucrare sull’offerta, i rinvii, le disdette, le penali, tra
consulenti, periti, giudici amministrativi sempre integerrimi, e arbitri pieni
di titoli.
Laurea – Fu snobbata da molta filologia
nell’Ottocento, da D’Ancona a Croce, anche da cultori della materia che poi
saranno cattedratici, intenti a dispensare lauree. È soprattutto titolo – per i
concorsi, per lo Stato.
Lega – Ha svuotato il carattere della
peculiarità o specificità, della “differenza”, nel mentre che lo afferma e se
ne vuole la difesa: sminuendolo, limitandolo, al fondo autopunitivo. Arcigno e
isolante. E non protettivo: in quanto concorrenziale, ha sempre qualcuno che è
“più” - più nordico, ricco, insolente. Specie rispetto ai modelli che propone.
Che devono rivoltarlesi contro,
inevitabilmente, essendo la comparazione competitiva.
Così la Germania, per un esempio dall’alto.
O gli immigrati, per uno dal basso: quelli interni, quelli extracomunitari poi,
e ora quelli extraeuropei. Di cui i leghisti hanno bisogno, come badanti, aiuto
domestico, braccianti, manovali, e che in certo modo beneficiano, ma da cui saranno
inevitabilmente antagonizzati.
Moro-Andreotti 3 - Pasolini
vedeva Andreotti
“intriso di un cereo sorriso di astuzia terribilmente insicura e ormai timida
senza riparo”. Esiste un’astuzia sicura?
A
ottobre 1974 Andreotti fa un golpe politico, tutto da solo: abbatte il governo
Rumor di cui è un pilastro, denuncia tre complotti, e arresta Miceli, capo
dei servizi segreti, uomo di Moro. I suoi amici democristiani alzano barricate
contro il suo ritorno a capo del governo: dapprima con Fanfani, per prendere
fiato, poi hanno Moro di riserva. Ma l’onorevole Andreotti va come un treno: ha
fatto arrestare Curcio e gli altri capi brigatisti - i carabinieri obbediscono,
se il morso è teso – immemore del pontiere Taviani e del terrorismo che è di
destra, il Pci portandosi ai piedi.
I tre golpe li ha denunciati il tre
ottobre, direttamente in Procura, come ogni cittadino visitato dai ladri.
Un’iniziativa personale e urgente, per l’ansia di salvare la libertà, senza
consultarsi col capo del suo governo, l’onorevole è un duro. E il governo si è
dimesso, subito. Sublime Dc: denuncia golpe di destra, ma dentro manda Miceli,
il generale dell’onorevole Moro. “In generale l’astinenza sessuale non giova a
formare uomini d’azione energici né pensatori originali o anche libertari o
riformatori, ma deboli dabbene”: Freud toppava anche qui, ma si può scusarlo,
non poteva sapere degli uomini d’azione democristiani, conducono essi le truppe
uscendo dalla sacrestia e non dall’alcova. L’eroe Dc è uno che vince negandosi.
Non é facile arrestare Miceli, intimo
dell’ambasciatore Usa Martin, che da Roma è andato a Saigon, e di James
Angleton, specialista italiano della Cia e uomo di fiducia del Mossad
israeliano. Andreotti ha annunciato la denuncia il 28 settembre, mentre il
presidente Leone e il ministro degli Esteri Moro erano negli Usa. Miceli era
andato all’ambasciata, prima della loro partenza, per dire al successore di
Martin, John Volpe, che non era il caso di puntare su Andreotti per il nuovo
governo. Bene, ora gli americani sanno chi comanda in Italia. È così che Leone
e Moro non hanno convinto Ford, cioè Kissinger.
L’Italia è stata prima invitata poi
esclusa dal vertice sul dollaro dei grandi dell’Occidente a Camp David. Il
presidente Ford e il segretario di Stato Kissinger ne avevano già discusso, del
problema sollevato da Miceli, riservatamente coi membri più influenti del
Congresso. “Non vorrei biasimarmi d’aver fatto troppo poco per salvare
l’Italia”, Kissinger ha detto loro. Il professore è, è stato, un intellettuale
liberale, in contatto con Alvaro, Moravia, Enriques Agnoletti. Moro ha troncato
la visita, Leone è stato fotografato a fare le corna.
Volpe vuole esclusi dal governo pure i
socialisti. Che già si erano esclusi: l’1 ottobre l’onorevole Tanassi, per
conto dei socialisti di destra, aveva dichiarato il centrosinistra finito.
D’accordo l’onorevole De Martino, per i socialisti di sinistra. E insieme
chiedono elezioni subito. Per fare il compromesso? De Martino è consigliato da
una Margherita, che viene dal Pci praticando l’entrismo e collaborava con i
servizi segreti – ma con Miceli o con Maletti?
Non c’è tempo di rifiatare. A metà mese
Kissinger lascia Delhi per Roma, per l’assemblea della Fao, premettendo non
richiesto: “Non chiedetemi della politica italiana, non la capisco”. Moro
snobba il primo incontro fra Kissinger e Leone a Roma. Al secondo evita di stringere
la mano al segretario di Stato, e fa dire: “Esistono interessi che si traducono
in pressioni, ma è compito del ministro degli Esteri opporsi alle pressioni
illecite e respingere le interferenze: un’area di libertà si conquista
puntigliosamente, vigilando”. Una dichiarazione di guerra.
Moro pareva un pappamolla e invece era un
incondizionale. A questo non si è riflettuto. Fu sempre fedele all’America, che nel 1964 lo salvò dal golpe di Segni. Fu il più
fedele di tutti nella guerra del Vietnam. E non ha mai fatto accordi con
nessuno – cordate, alternanze. Ma l’America di Kissinger non lo ha ritenuto
affidabile per un governo con il Pci, preferendogli Andreotti. Nasce allora la
guerra totale tra Moro e Andreotti.
Ma
si può dire anche che i due si somigliano, anzi in realtà sono uguali. Per la
comune esperienza nella Fuci di Paolo VI, la federazione degli universitari
cattolici, per il carattere diffidente e chiuso. Per questo nemici spietati, è
la concorrenza: l’uguale è il nemico. Non per fare questo o quello, per loro era
indifferente, il governo era per loro il potere. Il potere per grazia di Dio, non
un dovere. Entrambi brevi, il Tiberio che
Tacito inventò, dal linguaggio svelto benché oscuro. Ma anche politici alla
Henri Queuille, quello del “non c’è problema, per quanto urgente, che in assenza
d’una decisione non si risolva” - che de Gaulle aveva spazzato con un soffio,
con tutti i radicalsocialisti.
Nello sparigliamento in un primo momento Moro
prevale. Viene ordinata la cattura di Sindona e del suo aiutante Bordoni per bancarotta
fraudolenta alla veneranda Banca Privata italiana, e quindi Andreotti non ce la
può fare: ha incontrato più volte Sindona per fantomatici progetti di
salvataggio della lira, e il generale Miceli li ha implacabile registrati.
Bordoni è un ex della Banque pour le Commerce Suisse-Israélien. Il governatore
Carli, che si immaginava ministro del Tesoro del compromesso storico di
Andreotti, deve invece lasciare anche la Banca d’Italia: a Sindona ha fatto
prestare 124 preziosi milioni di dollari dal Banco di Roma, un istituto
pubblico gestito dal fido Ventriglia.
Fanfani tenta d’intromettersi, il colpo di coda
dopo la débâcle
del divorzio. Ma altrettanto avventatamente tenta il recupero del Vaticano, in
guerra aperta alla Fuci, la gioventù universitaria cara al papa, tra Andreotti
e Moro. Paolo VI è ovviamente fermo coi suoi pupili.
Il resto è storia – cioè ancora cronaca, la
storia non si fa.
Mussolini
– Flessibile, si direbbe, e anzi volubile, non l’uomo tutto d’un pezzo quale si
configura il dittatore. Insicuro anche. Nel passaggio all’interventismo e l’abbandono
del socialismo, dopo una giovinezza ribelle. Nell’isolamento costante per tutta
la sua vita pubblica: non solo in famiglia e nei rapporti umani, ma anche tra i
sodali e al governo. Sempre malfidato. In diplomazia opportunista senza mai una
regola, nelle trattative internazionali. Per instabilità caratteriale o
incapacità (incertezza, timidezza, riservatezza)? Sicuramente sì nella parte
iniziale e al finale della sua avventura: l’interventismo, tanto più se
finanziato dalla Francia, e la non richiesta sottomissione a Hitler che fu
l’adozione delle leggi antiebraiche e della razza pura.
A Hitler che invece aveva una sudditanza
psicologica verso l’immagine di Mussolini. Dell’arte e la propaganda fascista
dell’uomo forte. Ma di suo era più forte
(monolitico, deciso). Al punto da lavorare sempre “in gruppo”, con
collaboratori a loro modo capaci.
Padroncino
– Facendo i lavori di ristrutturazione in economia, si ha a che fare sempre con
coppie. Uno decide (contratta, propone, definisce il lavoro) e l’altro esegue.
Coppie a piramide.
Si parte dall’alto con l’impresario. Che
definisce il lavoro ma non lo esegue: non ha un’impresa, è un organizzatore del
lavoro, e il contraente: si contrattano con lui i costi, una specie di
capitolato, si stabiliscono i tempi, di cui sarà il referente, e se ne avranno
le fatture. Il lavoro lo fa il suo subordinato, nel senso che lo suddivide fra
vari specialisti, il muratore, il parchettista, l’imbianchino,
l’idraulico,eccetera. Ciascuno dei quali si presenterà al lavoro per la parte
di sua competenza sempre in coppia, l’esecuzione lasciando al secondo.
È l’economia dei servizi? Per ogni singolo lavoro
c’è uno specialista, che a sua volta si avvale di aiuti? È tutto il contrario
dell’economia di mercato, poiché non semplifica il lavoro e non ne riduce il
costo ma lo moltiplica, lo complica, e lo rincara. È
il principio dell’imprenditorialità, cominciare con un subordinato? Ma quanto
spreco.
È l’origine del caro-ristrutturazioni – e in
genere dei lavori in economia (dal meccanico, dal falegname, eccetera). Se il
mercato è invece il “decentramento”, nel senso del rifiuto del lavoro, ecco
l’origine del caro-lavoro. Un lavoro si moltiplica per quattro o per cinque.
Sarà un aiuto contro la disoccupazione, ma insieme anche una moltiplica, poiché
si faranno sempre meno lavori, solo se indispensabili.
astolfo@antiit.eu
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