È il tempo, fine Novecento, in cui tutti
chiedevano perdono, sullo orme del papa Giovanni Paolo II. C’è qualcosa di strano nella tempistica e il
senso politico di questo perdonismo, e Derrida, che ha dedicato al perdono (e
allo spergiuro) per tre anni di seguito il suo seminario alla École des Hautes
Études en Sciences Sociales, vuole dirlo subito: 1) si mantiene l’equivoco”
sulle colpe, confondendo “spesso, talvolta in modo calcolato, il perdono coi
temi contigui: la scusa, il rimorso, l’amnistia, la prescrizione, etc.”; 2) si
esprime “in un ambito religioso (diciamo abramitico, per riunirvi l’ebraismo,
il cristianesimo e gli islam)” – una “tradizione per complessa e differenziata
che sia, anche conflittuale, insieme singolare e in via di universalizzazione,
attraverso ciò che mette in opera o mette a giorno un certo teatro del
perdono”: 3) “la dimensione stessa del perdono tende a cancellarsi nel corso di
questa globalizzazione, e con essa ogni misura, ogni limite concettuale”. Il
perdono svanisce, evapora.
Il seminario e l’intervista sono una
persistente riflessione critica sulla mondializzazione, come il francese chiama
la globalizzazione, che non persuade Derrida. Che però non manca di argomenti,
benché ancora perplesso. Il perdonismo è il “prodotto” di una congiuntura della
storia (del dopo la grande paura del comunismo, n.d.r.). Che “s’incastra ma non
si confonde con la storia della riaffermazione dei diritti dell’uomo, di una
nuova Dichiarazione dei diritti dell’uomo. Questa specie di mutazione ha ristrutturato lo spazio teatrale
nel quale si rappresenta – sinceramente e non – il grande perdono, la grande
scena del pentimento. Che ha spesso i tratti, nella sua teatralità stessa, di
una grande convulsione – oserei dire di una compulsione frenetica? No, essa
risponde anche, per fortuna, a un «buon» moto. Ma il simulacro, il rituale
automatico, l’ipocrisia, il calcolo o lo scimmiottamento sono spesso della partita,
e si invitano da parassiti a questa cerimonia della colpevolezza”.Fino
all’assurdo o al ridicolo di cancellare la stessa colpa: “Se si cominciasse ad
accusarsi, chiedendo perdono, di tutti i crimini del passato contro l’umanità,
non ci sarebbe più un innocente sulla Terra – e dunque più nessuno in posizione
di giudice o di arbitro.
Una compulsione che prende l’aspetto di
una conversione”. Che si direbbe cristiana. In realtà avulsa: “Una conversione
di fatto e tendenzialmente universale: in via di mondializzazione”. E “la
«mondializzazione» del perdono somiglia a un’immensa scena di confessione in
corso, dunque a una convulsione-conversione-confessione virtualmente
cristiana”. Ma solo virtualmente, in realtà è “un processo di cristianizzazione
che non ha più bisogno della Chiesa cristiana”.
Paradossale ma non solo – Derrida ha
giocato d’anticipo, per una volta dichiarandosi: “La logica e il buonsenso si
accordano per una volta col paradosso”. (“C’è dell’imperdonabile… la sola cosa
che richieda il perdono”: il “perdonabile”
è “ciò che la Chiesa chiama «peccato veniale»”). Benché già all’epoca la
cultura del mercato dominasse, Derrida su questo puto soprattutto insiste: il
perdono non è uno scambio, un commercio.
La riflessione prolungata nel tempo e i
seminari nascono in riposta a Jankélévitch che nel 1967, nella polemica che si
svolgeva in Francia sulla prescrizione dei crimini nazisti, disse il perdono impossibile
- “è morto nei ampi della morte”(“Il perdono). Il saggio intitolato in italiano
“Perdono”, sottotitolo “L’imperdonabile e l’imprescrittibile”, corrisponde al
testo di una conferenza che Derrida ha tenuto nelle Università di Cracovia,
Varsavia, Atene, Capetown e Gerusalemme tra il 1997 e il 1998. Un anno dopo,
nel saggio altrettanto lungo, in forma d’intervista, Derrida elabora e acuisce
il il senso della sua riflessione. Azzardando, premette, “il rischio” di una proposizione
di questo tipo: “Ogni volta che il perdono
è al servizio di una finalità, fosse nobile e spirituale (riscatto o redenzione,
riconciliazione, salvezza), ogni volta
che tende a ristabilire una normalità (sociale, nazionale, politica, psicologica)
con un’elaborazione del lutto, con qualche terapia o ecologia della memoria, allora
il «perdono» non è puro – né il suo concetto. Il perdono non è, non dovrebbe essere, né normale né
normativo, né normalizzante. Dovrebbe
restare eccezionale e straordinario, a prova dell’impossibile, come se
interrompesse il corso ordinario della temporalità storica”).
Jacques Derrida, Le Siècle et le Pardon, intervista con Michel Wieviorka, in “Le
Monde des Débats”, n. 9, dicembre 1999
Perdonare, Cortina, pp.
106 € 8,80
Nessun commento:
Posta un commento