domenica 7 giugno 2015

Il perdono al mercato

È il tempo, fine Novecento, in cui tutti chiedevano perdono, sullo orme del papa Giovanni Paolo II.  C’è qualcosa di strano nella tempistica e il senso politico di questo perdonismo, e Derrida, che ha dedicato al perdono (e allo spergiuro) per tre anni di seguito il suo seminario alla École des Hautes Études en Sciences Sociales, vuole dirlo subito: 1) si mantiene l’equivoco” sulle colpe, confondendo “spesso, talvolta in modo calcolato, il perdono coi temi contigui: la scusa, il rimorso, l’amnistia, la prescrizione, etc.”; 2) si esprime “in un ambito religioso (diciamo abramitico, per riunirvi l’ebraismo, il cristianesimo e gli islam)” – una “tradizione per complessa e differenziata che sia, anche conflittuale, insieme singolare e in via di universalizzazione, attraverso ciò che mette in opera o mette a giorno un certo teatro del perdono”: 3) “la dimensione stessa del perdono tende a cancellarsi nel corso di questa globalizzazione, e con essa ogni misura, ogni limite concettuale”. Il perdono svanisce, evapora.
Il seminario e l’intervista sono una persistente riflessione critica sulla mondializzazione, come il francese chiama la globalizzazione, che non persuade Derrida. Che però non manca di argomenti, benché ancora perplesso. Il perdonismo è il “prodotto” di una congiuntura della storia (del dopo la grande paura del comunismo, n.d.r.). Che “s’incastra ma non si confonde con la storia della riaffermazione dei diritti dell’uomo, di una nuova Dichiarazione dei diritti dell’uomo. Questa specie di  mutazione ha ristrutturato lo spazio teatrale nel quale si rappresenta – sinceramente e non – il grande perdono, la grande scena del pentimento. Che ha spesso i tratti, nella sua teatralità stessa, di una grande convulsione – oserei dire di una compulsione frenetica? No, essa risponde anche, per fortuna, a un «buon» moto. Ma il simulacro, il rituale automatico, l’ipocrisia, il calcolo o lo scimmiottamento sono spesso della partita, e si invitano da parassiti a questa cerimonia della colpevolezza”.Fino all’assurdo o al ridicolo di cancellare la stessa colpa: “Se si cominciasse ad accusarsi, chiedendo perdono, di tutti i crimini del passato contro l’umanità, non ci sarebbe più un innocente sulla Terra – e dunque più nessuno in posizione di giudice o di arbitro.
Una compulsione che prende l’aspetto di una conversione”. Che si direbbe cristiana. In realtà avulsa: “Una conversione di fatto e tendenzialmente universale: in via di mondializzazione”. E “la «mondializzazione» del perdono somiglia a un’immensa scena di confessione in corso, dunque a una convulsione-conversione-confessione virtualmente cristiana”. Ma solo virtualmente, in realtà è “un processo di cristianizzazione che non ha più bisogno della Chiesa cristiana”.
Paradossale ma non solo – Derrida ha giocato d’anticipo, per una volta dichiarandosi: “La logica e il buonsenso si accordano per una volta col paradosso”. (“C’è dell’imperdonabile… la sola cosa che richieda il perdono”: il “perdonabile” è “ciò che la Chiesa chiama «peccato veniale»”). Benché già all’epoca la cultura del mercato dominasse, Derrida su questo puto soprattutto insiste: il perdono non è uno scambio, un commercio.
La riflessione prolungata nel tempo e i seminari nascono in riposta a Jankélévitch che nel 1967, nella polemica che si svolgeva in Francia sulla prescrizione dei crimini nazisti, disse il perdono impossibile - “è morto nei ampi della morte”(“Il perdono). Il saggio intitolato in italiano “Perdono”, sottotitolo “L’imperdonabile e l’imprescrittibile”, corrisponde al testo di una conferenza che Derrida ha tenuto nelle Università di Cracovia, Varsavia, Atene, Capetown e Gerusalemme tra il 1997 e il 1998. Un anno dopo, nel saggio altrettanto lungo, in forma d’intervista, Derrida elabora e acuisce il il senso della sua riflessione. Azzardando, premette, “il rischio” di una proposizione di questo tipo:  “Ogni volta che il perdono è al servizio di una finalità, fosse nobile e spirituale (riscatto o redenzione,  riconciliazione, salvezza), ogni volta che tende a ristabilire una normalità (sociale, nazionale, politica, psicologica) con un’elaborazione del lutto, con qualche terapia o ecologia della memoria, allora il «perdono» non è puro – né il suo concetto. Il perdono non è, non dovrebbe essere, né normale né normativo, né normalizzante. Dovrebbe restare eccezionale e straordinario, a prova dell’impossibile, come se interrompesse il corso ordinario della temporalità storica”).
Jacques Derrida, Le Siècle et le Pardon, intervista con Michel Wieviorka, in “Le Monde des Débats”, n. 9, dicembre 1999
Perdonare, Cortina, pp. 106 € 8,80

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