Una
esumazione fresca, come di acqua di sorgente. Per quanto di maniera, nei temi, la
metrica, la trasposizione, questi canti hanno una lingua diretta, ancora viva.
Forbita, come è di tutte le raccolte di canti “popolari”, ma schietta, a
suo modo “popolare”, cioè ingenua. Come la storia della pubblicazione: Paolo
Martino, ordinario di Glottologia a Roma, e lo scrittore e critico Santino
Salerno pubblicano una raccolta autografa di almeno un secolo fa, rimasta
inedita, rinvenuta a Palmi “tra vecchie carte giacenti nel laboratorio
dell’unico tipografo-rilegatore di libri di quella città”.
Una
raccolta di canti popolari di cui tanto più la lettura è golosa proprio per
essere monotematica - la donna e l’amore, il rifiuto: ha il segreto di ridare
smalto al repertorio trito. In più punti anche di sapersene affrancare. “Passa
lu ventu e nci parra a la rosa\ e chija palora nci crisci la vita”. Cattivo il
giusto: “Stanotti mi nsonnai ch’eramu morti”, e i medici facendo l’autopsia
“Ddu cori a mia trovaru e nuju a tia”. Sapido al fondo. Buccisano professa di
avere espunto “quanto sa di scurrile e pornografico”, ma c’è il papa che
assolve in confessione i peccati d’amore per una ragione precisa: “Ca se non
fussi santu Patri jeu,\ cchiù megghiu lu farria chistu piccatu!”. Senza smettere
il vezzo connaturato, etnico, della “zannella”: lo scherzo, l’ironia: la
bianchezza - del viso, della pelle - tanto apprezzata sa di luna, naturalmente, e
di carta, riso, farina, cotone.
Il
canto popolare, che poi sarà di protesta, fino a Ottocento inoltrato è d’amore
– lo sdegno è dell’innamorato, ferito, respinto, tradito, eccetera. Di e
attorno a donne, ma come di un ideale.
La donna più spesso è indistinta, e stereotipa: bionda, bianca, dea, eccetera.
La raccolta monotematica nasce dunque ripetitiva. Ma il saggio introduttivo di
Buccisano, che i curatori recuperano da altre pubblicazioni, ”Aspetti della tradizione
orale melicucchese”, si apre con Darwin: “La legge dell’evoluzione (Darwin),
nel suo fatale aire, trasforma gli esseri
viventi senza risparmiare le lingue…” Che dunque evolvono anch’esse.
L’impianto
è di un altro mondo, anche questo è motivo d’interesse. Che sembra remotissimo,
invece è appena di qualche generazione fa, e avrebbe potuto ingenerare un’altra
storia. Di una borghesia professionale posata e acuta, anche quando era in
affari o in politica. Un ceto dirigente di spessore anche nei gangli più remoti
del Sud, quale era – è – Melicuccà. Che la Repubblica e i partiti di massa
hanno spazzato via, abbandonando quel mondo al sottobosco, d’incapacità mista a
corruttela, su un fondo di violenza.
Buccisano
(18423-1921) era medico, nipote di medici, notabili (“nobili”) di paese, di suo
latinista, antropologo, sindaco, corrispondente per passione dei grandi folkloristi
Raffaele Corso e Raffaele Lombardi Satriani, e di vari giornali e riviste.
Socialista, trovava nel canto popolare,- “un tesoro di religione, di amori e di
dolori, di gioie sentite e vibranti” – un invito “ad amare il popolo, a
comprenderlo, a stimarlo”. E della “voce popolare”, del dialetto, sa quello che
più non se ne sa: “I dialetti perdono continuamente la loro primitiva e rude
freschezza; ogni giorno che passa gli porta via una consuetudine, e li trasforma
nella struttura delle parole, negli accenti, nella trasposizione e nella
melodia originale”. Ma non fa – non qui – opera di recupero: sa che alla
sommatoria l’invenzione compensa le perdite, finché il dialetto rimane vivo.
Sul fatto
Buccisano mostra notevole perizia. Nei canti che raccoglie in paese trova
“molta importazione siciliana e qua e là l’obras
españolas dei concioneros”,
i poeti spagnoli del Trecento eredi della poesia provenzale e della Scuola
siciliana. Si poteva pensare a una derivazione diretta, dalla Scuola siciliana
e lo Stil Novo, ma è possibile che gli echi siano arrivati a Sud attraverso i
re aragonesi. Se non che “le nostre vignette”, pretende anche, “sono
fotografate dal vero”. E questo non è vero.
L’elaborazione,
se non l’origine, del “canto popolare” è sempre colta, oggi si direbbe
borghese.
Si sa
come vanno le cose col canto popolare, sono svaniti gli entusiasmi di Herder,
che del genere fu l’araldo e il sistematore: le raccolte sono comunque
d’autore, per la scelta, la redazione, spesso la metrica. Il canto popolare può
non essere “spontaneo e originale”, solitamente non nella redazione. Buccisano
trova naturalmente i “rispetti” in paese, ma li elabora, quando non li crea.
S’intende
canto popolare quello dei cantastorie. Che hanno solitamente metrica variegata.
Con versi più cantabilmente brevi e strofe più lunghe che non gli endecasillabi
e le quartine di questi 150 componimenti – solo una diecina si differenziano,
per la lunghezza della strofa, il verso è ferreamnte endecasillabo. Il
cantastorie lavorava per accumulo: ereditava e arricchiva un repertorio, a
volte innovandolo. La raccolta è invece uniforme nella metrica – e anche, a ben
leggere, nell’espressione. Le trascrizioni mantengono la vitalità
dell’espressione dialettale. Ma quasi tutti i reperti, anonimi, mostrano la
stessa mano. I componimenti dei cantastorie che Buccisano trascrive nel saggio
introduttivo, di uno, innominato, “vanitoso e per giunta allitterato”, cioè colto, e di un Rocco Parisi da Santa Cristina che dice “tipo
strano e nomade, analfabeta”, sono invece di loro mano. Ma questi Buccisano non
repertoria nella raccolta.
L’amico di casa
Una raccolta
di canti popolari è un anacronismo nella letteratura del Duemila che si vuole globale,
sradicata. Una così densa, di 150 componimenti, e monotematica, parte anche
uggiosa Ma di questa l’effetto è opposto. Per l’inventiva, certo. Ma più,
probabilmente, per l’uso appropriato del dialetto. Il dialetto d’ogni giorno.
Senza forzature, né nel costrutto né nelle parole, né filologico-fokloriche né
a effetto (innovazioni, elaborazioni, rarità).
Il
dialetto non è più folklore, essendo ritornato con la devitalizzazione della
lingua, e come linguaggio vivo si apprezza. Ritorna il dialetto come un’eco del
più ampio effetto osservato per la crisi delle nazionalità nell’ambito dell’interdipendenza
e delle grandi aree, economiche se non politiche o culturali (insomma l’Unione
Europa), che vede le “piccole patrie”(il leghismo) insorgere in controtendenza? È possibile.
Poiché Buccisano paga tributo alla “dotta Germania” in
materia di canti popolari (le prime raccolte di canti meridionali, e calabresi,
sono opera di filologi tedeschi del primo Ottocento, così come, successivamente,
i primi studi della grammatica e la sintassi dei dialetti), aiutano a capire il
senso di novità di questa raccolta i più recenti sviluppi di quella cultura.
Che la scomparsa del dialetto ha risentito come una mancanza. È “l’amico
di casa” che ora ci manca, diceva Heidegger, che per questo s’impegnò in un
breve scritto sul poeta popolare vernacolare Hebel: “Erriamo oggi in una casa
del mondo alla quale manca «l’amico di casa»” – a Johann-Peter Hebel si devono i più bei racconti della lingua tedesca, a giudizio di
molti ottimi tedeschi: Hesse, Adorno, Canetti, Reich-Ranicki.
Heidegger, il filosofo, ebbe forte la componente locale familiare,
sveva, alemanna, per il senso della vita e dello stesso filosofare: il
radicamento, la lentezza. Ma il senso è più forte, del radicamento e della
lentezza, nell’espatrio, della “perdita della patria”. Anche questo va nel
conto dell’attrattiva di questa raccolta: Buccisano era del paese, e non lo
era, aveva studiato e intratteneva relazioni continuative fuori, a Napoli, a
Palermo, a Messina. Hebel, il poeta e narratore della Foresta Nera, trascorse
metà almeno della sua vita lontano dai suoi luoghi. La sua poesia è della nostalgia e della
riscoperta, la lingua del paese – meglio, il linguaggio – è rivissuta, e
riapprezzata, in controluce. Rivive come ritorno.
Heidegger
“usa” Hebel, peraltro, e il dialetto, come chiavi per “portare alla parola”.
Con ciò intendendo l’origine del linguaggio: “«Portare alla parola» significa:
innalzare la cosa non parlata e non detta nella parola e far apparire delle
cose nascoste fino ad allora tramite il dire”. Ma sa che il segreto del
dialetto è di essere stato assunto nella lingua: “Hebel è riuscito a inserire
la lingua del dialetto alemanno nella lingua standard e scritta. In questo modo
il poeta fa risuonare la lingua scritta come pura eco del dialetto”. Pura forse
no, e neanche eco, ma familiare sì. Dialetto è la
lingua originaria che consente all’uomo di esistere, stare al mondo, nominarlo,
abitarlo.
“Il linguaggio, secondo la
sua origine essenziale, è dialetto”, dice ancora Heidegger di Hebel. In questa
forma lo riafferma in “Linguaggio e terra natia”, il saggio conferito al volume
celebrativo di Carl Burckhardt nel 1961: il dialetto “rimane tale perfino
quando giunge ad essere linguaggio planetario. Infatti anch’esso ha la sua
elezione e la sua particolarità”. E subito dopo in altra forma: “Nel dialetto
si radica l’essenza del linguaggio. Si radica in esso anche se il dialetto è la
lingua della madre”, la lingua cioè che circonda l’infante, “il proprio della
casa, la terra natia. Il dialetto non è
solo la lingua della madre, ma al tempo stesso è anzitutto la madre della
lingua”. È il
dialetto che “porta il linguaggio al linguaggio”, all’espressione, alla
connotazione.
Mundart, la
parola tedesca per “dialetto” non
piaceva a Heidegger – ancora in “Linguaggio e terra natia” - perché dice solo
“la comunicazione verbale, il carattere sonoro del linguaggio”. Gli piaceva di
più “la parola straniera Dialekt”,
perché di senso originario “eletto”, il greco dialégein, “il parlare l’uno con l’altro che è la matrice del linguaggio
– “un parlare reciproco di tipo eletto, sì, particolare, e cioè un ascoltare
l’uno dopo l’altro”. Ma Mundart ha un
senso pratico più suggestivo, un parlare al modo della bocca – l’arte vocale
come una sorta di natura.
Lampedusa usa il dialetto come aggravante della
mediocrità, nel suo caso di un re. Così era venuto usandolo Gadda nel “Pasticciaccio”,
in chiave connotativa (ironica) e non realistica. Di efficacia espressiva ma in
senso diminutivo, in funzione del ridicolo, della persona, delle situazioni. In
Pasolini cambia poco: è deprecativo, in funzione plebea. Ma è il modo
d’essere, del singolo, o del singolo nel gruppo naturale: l’espressione
immediata, come la famiglia è il gruppo sociale primario, naturale. Struttura
la personalità. Anche quando il linguaggio si adatta, la lingua rimane quella.
Un milanese non potrà realmente parlare romano. Gadda ci riesce perché
legge il dialetto per quello che è - è sensibile viaggiatore, che sente le
differenze (al contrario di Pasolini o Parise, che usano il dialetto e le
costruzioni dialettali a scopi neo realistici - per “andare verso il popolo”,
direbbe Moravia). Buccisano, nel suo piccolo, è nel verso giusto, della “vivenza”
e quasi heideggeriano.
Paolo
Martino e Santino Salerno (a cura di), Canti
d’amuri e di sdegnu, e altri canti della tradizione orale calabrese
raccolti a Melicuccà da Carlo Buccisano, Laruffa, pp. 134 € 10
La
lettura naturalmente è anche personale. Entro cioè una vicenda che ha visto il
nordismo preconcetto, totale, respinto dal Nord a Milano, dalla Lega e affini. Da
qui la nostalgia di una dialetto, un lingua propria, gentile. Riservata, che
dice e non dice. Di quando il ritegno era ritenuto
naturale, negli affetti come nel dolore, il proprio, dei propri familiari, fin
nella disgrazia, la malattia, la morte. Mentre ora ci adagiamo nel dialetto,
per isolarci e per straparlare. Sempre meno nella forma intermittente,
esornativa, espediente alla narrazione, sempre più invece in forme dure, per il
tono, l’accento, accentuate, cupe. Come a calare una saracinesca. Non si
riesce a pensare a una rima aggraziata in dialetto, o giocosa, solo a forme di
sdegno vero, d’invettiva. Di malinconia.
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