giovedì 11 giugno 2015

Ritorna il dialetto lingua viva

Una esumazione fresca, come di acqua di sorgente. Per quanto di maniera, nei temi, la metrica, la trasposizione, questi canti hanno una lingua diretta, ancora viva. Forbita, come è di tutte le raccolte di canti “popolari”, ma schietta, a suo modo “popolare”, cioè ingenua. Come la storia della pubblicazione: Paolo Martino, ordinario di Glottologia a Roma, e lo scrittore e critico Santino Salerno pubblicano una raccolta autografa di almeno un secolo fa, rimasta inedita, rinvenuta a Palmi “tra vecchie carte giacenti nel laboratorio dell’unico tipografo-rilegatore di libri di quella città”.  
Una raccolta di canti popolari di cui tanto più la lettura è golosa proprio per essere monotematica - la donna e l’amore, il rifiuto: ha il segreto di ridare smalto al repertorio trito. In più punti anche di sapersene affrancare. “Passa lu ventu e nci parra a la rosa\ e chija palora nci crisci la vita”. Cattivo il giusto: “Stanotti mi nsonnai ch’eramu morti”, e i medici facendo l’autopsia “Ddu cori a mia trovaru e nuju a tia”. Sapido al fondo. Buccisano professa di avere espunto “quanto sa di scurrile e pornografico”, ma c’è il papa che assolve in confessione i peccati d’amore per una ragione precisa: “Ca se non fussi santu Patri jeu,\ cchiù megghiu lu farria chistu piccatu!”. Senza smettere il vezzo connaturato, etnico, della “zannella”: lo scherzo, l’ironia: la bianchezza - del viso, della pelle - tanto apprezzata sa di luna, naturalmente, e di carta, riso, farina, cotone. 
Il canto popolare, che poi sarà di protesta, fino a Ottocento inoltrato è d’amore – lo sdegno è dell’innamorato, ferito, respinto, tradito, eccetera. Di e attorno a donne, ma come di un  ideale. La donna più spesso è indistinta, e stereotipa: bionda, bianca, dea, eccetera. La raccolta monotematica nasce dunque ripetitiva. Ma il saggio introduttivo di Buccisano, che i curatori recuperano da altre pubblicazioni, ”Aspetti della tradizione orale melicucchese”, si apre con Darwin: “La legge dell’evoluzione (Darwin), nel suo fatale aire,  trasforma gli esseri viventi senza risparmiare le lingue…” Che dunque evolvono anch’esse.
L’impianto è di un altro mondo, anche questo è motivo d’interesse. Che sembra remotissimo, invece è appena di qualche generazione fa, e avrebbe potuto ingenerare un’altra storia. Di una borghesia professionale posata e acuta, anche quando era in affari o in politica. Un ceto dirigente di spessore anche nei gangli più remoti del Sud, quale era – è – Melicuccà. Che la Repubblica e i partiti di massa hanno spazzato via, abbandonando quel mondo al sottobosco, d’incapacità mista a corruttela, su un fondo di violenza.
Buccisano (18423-1921) era medico, nipote di medici, notabili (“nobili”) di paese, di suo latinista, antropologo, sindaco, corrispondente per passione dei grandi folkloristi Raffaele Corso e Raffaele Lombardi Satriani, e di vari giornali e riviste. Socialista, trovava nel canto popolare,- “un tesoro di religione, di amori e di dolori, di gioie sentite e vibranti” – un invito “ad amare il popolo, a comprenderlo, a stimarlo”. E della “voce popolare”, del dialetto, sa quello che più non se ne sa: “I dialetti perdono continuamente la loro primitiva e rude freschezza; ogni giorno che passa gli porta via una consuetudine, e li trasforma nella struttura delle parole, negli accenti, nella trasposizione e nella melodia originale”. Ma non fa – non qui – opera di recupero: sa che alla sommatoria l’invenzione compensa le perdite, finché il dialetto rimane vivo.
Sul fatto Buccisano mostra notevole perizia. Nei canti che raccoglie in paese trova “molta importazione siciliana e qua e là l’obras españolas dei concioneros”, i poeti spagnoli del Trecento eredi della poesia provenzale e della Scuola siciliana. Si poteva pensare a una derivazione diretta, dalla Scuola siciliana e lo Stil Novo, ma è possibile che gli echi siano arrivati a Sud attraverso i re aragonesi. Se non che “le nostre vignette”, pretende anche, “sono fotografate dal vero”. E questo non è vero.
L’elaborazione, se non l’origine, del “canto popolare” è sempre colta, oggi si direbbe borghese.   
Si sa come vanno le cose col canto popolare, sono svaniti gli entusiasmi di Herder, che del genere fu l’araldo e il sistematore: le raccolte sono comunque d’autore, per la scelta, la redazione, spesso la metrica. Il canto popolare può non essere “spontaneo e originale”, solitamente non nella redazione. Buccisano trova naturalmente i “rispetti” in paese, ma li elabora, quando non li crea.
S’intende canto popolare quello dei cantastorie. Che hanno solitamente metrica variegata. Con versi più cantabilmente brevi e strofe più lunghe che non gli endecasillabi e le quartine di questi 150 componimenti – solo una diecina si differenziano, per la lunghezza della strofa, il verso è ferreamnte endecasillabo. Il cantastorie lavorava per accumulo: ereditava e arricchiva un repertorio, a volte innovandolo. La raccolta è invece uniforme nella metrica – e anche, a ben leggere, nell’espressione. Le trascrizioni mantengono la vitalità dell’espressione dialettale. Ma quasi tutti i reperti, anonimi, mostrano la stessa mano. I componimenti dei cantastorie che Buccisano trascrive nel saggio introduttivo, di uno, innominato, “vanitoso e per giunta allitterato”, cioè colto, e di un Rocco Parisi da Santa Cristina che dice “tipo strano e nomade, analfabeta”, sono invece di loro mano. Ma questi Buccisano non repertoria nella raccolta.
L’amico di casa
Una raccolta di canti popolari è un anacronismo nella letteratura del Duemila che si vuole globale, sradicata. Una così densa, di 150 componimenti, e monotematica, parte anche uggiosa Ma di questa l’effetto è opposto. Per l’inventiva, certo. Ma più, probabilmente, per l’uso appropriato del dialetto. Il dialetto d’ogni giorno. Senza forzature, né nel costrutto né nelle parole, né filologico-fokloriche né a effetto (innovazioni, elaborazioni, rarità).
Il dialetto non è più folklore, essendo ritornato con la devitalizzazione della lingua, e come linguaggio vivo si apprezza. Ritorna il dialetto come un’eco del più ampio effetto osservato per la crisi delle nazionalità nell’ambito dell’interdipendenza e delle grandi aree, economiche se non politiche o culturali (insomma l’Unione Europa), che vede le “piccole patrie”(il leghismo) insorgere in controtendenza? È possibile.
Poiché Buccisano paga tributo alla “dotta Germania” in materia di canti popolari (le prime raccolte di canti meridionali, e calabresi, sono opera di filologi tedeschi del primo Ottocento, così come, successivamente, i primi studi della grammatica e la sintassi dei dialetti), aiutano a capire il senso di novità di questa raccolta i più recenti sviluppi di quella cultura. Che la scomparsa del dialetto ha risentito come una mancanza. È “l’amico di casa” che ora ci manca, diceva Heidegger, che per questo s’impegnò in un breve scritto sul poeta popolare vernacolare Hebel: “Erriamo oggi in una casa del mondo alla quale manca «l’amico di casa»” – a Johann-Peter Hebel si devono i più bei racconti della lingua tedesca, a giudizio di molti ottimi tedeschi: Hesse, Adorno, Canetti, Reich-Ranicki.
Heidegger, il filosofo, ebbe forte la componente locale familiare, sveva, alemanna, per il senso della vita e dello stesso filosofare: il radicamento, la lentezza. Ma il senso è più forte, del radicamento e della lentezza, nell’espatrio, della “perdita della patria”. Anche questo va nel conto dell’attrattiva di questa raccolta: Buccisano era del paese, e non lo era, aveva studiato e intratteneva relazioni continuative fuori, a Napoli, a Palermo, a Messina. Hebel, il poeta e narratore della Foresta Nera, trascorse metà almeno della sua vita lontano dai suoi luoghi. La sua poesia è della nostalgia e della riscoperta, la lingua del paese – meglio, il linguaggio – è rivissuta, e riapprezzata, in controluce. Rivive come ritorno.
Heidegger “usa” Hebel, peraltro, e il dialetto, come chiavi per “portare alla parola”. Con ciò intendendo l’origine del linguaggio: “«Portare alla parola» significa: innalzare la cosa non parlata e non detta nella parola e far apparire delle cose nascoste fino ad allora tramite il dire”. Ma sa che il segreto del dialetto è di essere stato assunto nella lingua: “Hebel è riuscito a inserire la lingua del dialetto alemanno nella lingua standard e scritta. In questo modo il poeta fa risuonare la lingua scritta come pura eco del dialetto”. Pura forse no, e neanche eco, ma familiare sì. Dialetto è la lingua originaria che consente all’uomo di esistere, stare al mondo, nominarlo, abitarlo.
“Il linguaggio, secondo la sua origine essenziale, è dialetto”, dice ancora Heidegger di Hebel. In questa forma lo riafferma in “Linguaggio e terra natia”, il saggio conferito al volume celebrativo di Carl Burckhardt nel 1961: il dialetto “rimane tale perfino quando giunge ad essere linguaggio planetario. Infatti anch’esso ha la sua elezione e la sua particolarità”. E subito dopo in altra forma: “Nel dialetto si radica l’essenza del linguaggio. Si radica in esso anche se il dialetto è la lingua della madre”, la lingua cioè che circonda l’infante, “il proprio della casa, la terra natia. Il dialetto non è solo la lingua della madre, ma al tempo stesso è anzitutto la madre della lingua”. È il dialetto che “porta il linguaggio al linguaggio”, all’espressione, alla connotazione.
Mundart, la parola tedesca per “dialetto” non piaceva a Heidegger – ancora in “Linguaggio e terra natia” - perché dice solo “la comunicazione verbale, il carattere sonoro del linguaggio”. Gli piaceva di più “la parola straniera Dialekt”, perché di senso originario “eletto”, il greco dialégein, “il parlare l’uno con l’altro che è la matrice del linguaggio – “un parlare reciproco di tipo eletto, sì, particolare, e cioè un ascoltare l’uno dopo l’altro”. Ma Mundart ha un senso pratico più suggestivo, un parlare al modo della bocca – l’arte vocale come una sorta di natura.
Lampedusa usa il dialetto come aggravante della mediocrità, nel suo caso di un re. Così era venuto usandolo Gadda nel “Pasticciaccio”, in chiave connotativa (ironica) e non realistica. Di efficacia espressiva ma in senso diminutivo, in funzione del ridicolo, della persona, delle situazioni. In Pasolini cambia poco: è deprecativo, in funzione plebea. Ma è il modo d’essere, del singolo, o del singolo nel gruppo naturale: l’espressione immediata, come la famiglia è il gruppo sociale primario, naturale. Struttura la personalità. Anche quando il linguaggio si adatta, la lingua rimane quella. Un milanese non potrà realmente parlare romano. Gadda ci riesce perché legge il dialetto per quello che è - è sensibile viaggiatore, che sente le differenze (al contrario di Pasolini o Parise, che usano il dialetto e le costruzioni dialettali a scopi neo realistici - per “andare verso il popolo”, direbbe Moravia). Buccisano, nel suo piccolo, è nel verso giusto, della “vivenza” e quasi heideggeriano.
La lettura naturalmente è anche personale. Entro cioè una vicenda che ha visto il nordismo preconcetto, totale, respinto dal Nord a Milano, dalla Lega e affini. Da qui la nostalgia di una dialetto, un lingua propria, gentile. Riservata, che dice e non dice. Di quando il ritegno era ritenuto naturale, negli affetti come nel dolore, il proprio, dei propri familiari, fin nella disgrazia, la malattia, la morte. Mentre ora ci adagiamo nel dialetto, per isolarci e per straparlare. Sempre meno nella forma intermittente, esornativa, espediente alla narrazione, sempre più invece in forme dure, per il tono, l’accento, accentuate, cupe. Come a calare una saracinesca. Non si riesce a pensare a una rima aggraziata in dialetto, o giocosa, solo a forme di sdegno vero, d’invettiva. Di malinconia.
Paolo Martino e Santino Salerno (a cura di), Canti d’amuri e di sdegnu, e altri canti della tradizione orale calabrese raccolti a Melicuccà da Carlo Buccisano, Laruffa, pp. 134 € 10

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