Nicola Crocetti riunisce, in originale e
in traduzione, le edizioni di Kavafis che negli anni è andato collazionando per
la sua casa editrice. Un poeta “alessandrino” di Alessandria d’Egitto, immerso
nel mito e nella memoria. Si dice la storia, ma è la memoria, vaga, immemore al
tempo, alle persone e alla natura, che i fiori vuole finti - “Datemi fiori
finti”. Anche quando la storia evoca, non sa che farsene. Un greco senza
patria. Tra fine Ottocento e primo Novecento, costeggiando in città Marinetti e
Ungaretti, ma parnassiano, si direbbe in gergo europeo.
È la stessa antologia, più curata,
pubblicata tre anni fa dal “Corriere della sera”. “La memoria e la passione”
era il titolo di quella raccolta, e questo Kavafis è. La
storia è Itaca, l’insofferenza del ritorno. E nostalgia, allora come oggi. È l’amore,
anonimo per lo più, e di sesso, benché di occasioni sfumate o passate. Dell’amore
che non si dice(va), vissuto come colpa, la foja insaziata imputandosi a
peccato: “Giura”, il poeta irride al suo
sé, e poi, “quando giunge la notte col suo potere\ del corpo che desidera e
reclama, fa ritorno,\ smarrito, a quel predestinato suo piacere”.
La
sensualità è come la città, di confluenze ormai remote: la “pelle come di
gelsomino fatta”, la promessa di uno sguardo rubato, il rimpianto di un
incontro evitato, e di tutto il “ricordo appena” degli occhi - “Erano azzurri,
credo…,\ Ah sì, azzurri, uno zaffiro azzurro”.
Curiosamente
amato da Montale, che ne tradusse (dall’inglese?) “Aspettando i barbari”, forse
per l’assunto più che per la poesia. Del poeta sperduto-stordito nella storia:
la poesia è l’attesa di una palingenesi che naturalmente non arriverà nemmeno
con i barbari, il languore di un’eterna fine.
Costantino Kavafis, Le poesie, Einaudi, pp. 320 € 14
Nessun commento:
Posta un commento