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sabato 6 giugno 2015

Letture - 217

letterautore

Autofiction – Vira al sacro? Torneranno le prime comunioni? Anche il catechismo. Invece dei turbamenti sessuali e le inevitabili crudeltà, mutuati dalla psicoanalisi volgare.
In rapido sorpasso ultimamente dai social: Facebook, Insegreto, Instagram, PostSecret, Erbadelvicino, Sfoghiamoci, Snapchat, What’a app. Sarà per questo che i più assidui cultori del genere, Carrère, Houellebecq, anche Veronesi, hanno virato al sacro. Come memoria meno frequentata, o peccaminosa a rovescio, delle gelosie e le fantasie morbose - anche il sacro può essere morboso, ma nel genere dilettazione, senza orgasmo, richiede cioè più raffinatezza.

Dante – “Ha messo in scena una delle più grandi autofiction della storia letteraria”, dice Vittorio Sermonti, il suo massimo frequentatore . O non voleva dire il contrario? Lo stesso Sermonti continua, parlandone con Roberta Scorranese sul “Corriere della sera” domenica 31: “Scrive di un esilio già avvenuto come se dovesse avvenire”. Un autore esiliato, e perseguitato nell’esilio, come Dante è stato, non avrebbe parlato di altro. Lui è stato capace di qualcosa dei tutto diverso.
Ancora Sermonti: “Dante si meraviglia in continuazione. Delle miserie umane come delle altezze”.

Dialetto – Le intercettazioni di Mafia Capitale danno curiosamente ai protagonisti delle cooperative ex carcerati, quelli che usano il romanesco come vera lingua, una dimensione meno corrotta, e comunque non squallida, rispetto ai loro interlocutori nell’amministrazione e la politica. I “burocorrotti” sono falsi anche nella parlata. “Piccoli”, nel senso che la loro corruzione è micragnosa, ed è anche diffusa – non è “mafia”, è proprio un modo di essere. Il romanesco di Buzzi e Carminati è invece solido, disincantato come dev’essere il romanesco (quello di Gadda, giustamente, non di Pasolini), misuratamente inventivo (quel “mondo di mezzo”…) come in Belli, e non è avido. È acconciarsi, uno che ha fatto vent’anni di carcere sa qual è il galateo, a un modo d’essere. È una lingua “onesta”.
È una verità linguistica onesta, quella dei capimafia di Prestipino e Pignatone, anche nei confronti dei cronisti e dei commentatori. Tutti (più o meno) corrotti, nel loro piccolo ovviamente, che si stacciano le vesti al lamento: “Gentaglia!”

Femminicidio – Continua a latitare in letteratura, malgrado sia al centro dell’attualità, cui il romanzo da qualche decennio è sensibile. Ci sono romanzi sul terrorismo, sulla pedofilia (ora in declino) e gli orchi, molti sugli immigrati, il femminicidio invece non attecchisce. Nemmeno come “scrittura femminile”, come usava dire. Nemmeno in aspetto esotico, il femminicidio in India o in ambito islamici, delle figlie, delle sorelle, delle adultere, delle donne sole. È per stanchezza dell’instant-novel? È che, malgrado il clamore, il fatto è “scontato” – vecchio, tradizionale, al limite della follia o del suicidio? O gli uomini, che ancora fanno i quattro quinti dei narratori, non sono più “femministi”.

Primo Levi – È probabilmente l’autore più dantesco, anzi il solo, del Novecento. Senza volerlo, ma più di altri che ci avrebbero ambito e ne hanno fatto il progetto. Uno che all’inferno c’è stato realmente. E poi ha saputo elaborarlo – l’elaborazione del lutto. Altri se ne sono fatti schiacciare, o ne hanno fatto mercimonio, Primo Levi è andato molto più a fondo nell’ignominia. L’ironia, il distacco invece del furore, lo tiene lontano da Dante, che è citazione facile che lui non fa, forse non amandolo, ma allora è un dantesco senza volerlo: i suoi racconti sono le “montagne” dello sterminio, il suo viaggio notturno, “Se questo è un uomo” è l’“Inferno”, “La tregua” il “Purgatorio” e il “Paradiso” insieme, col riso invece del sublime.

Mondialatinizzazione – “Il mondo oggi parla latino (più spesso attraverso l’anglo-americano”, sostiene Derrida in un saggio del 1995, “Fede e sapere”. Lo rileva in fatto di religione, parola e concetto tutto latino, ma poi degli altri linguaggi fondamentali, giuridico, filosofico e anche scientifico e “ciberspaziale”, tutti legati originariamente alla religio. “La questione della religio non si confonde semplicemente, se si  può dire, con la questione del latino?”.

Successivamemte, nel saggio-intervista con Michel Wieviorka, su “Le Monde des Débats”  del 9 dicembre 1999, Derrida precisa di usare mondialatinizzazione al posto di “mondializzazione”, che il francese preferisce a globalizzazione, “per prendere in conto l’effetto della  cristianità romana che surdetermina oggi tutto il linguaggio del diritto, della politica, e anche l’interpretazione del cosiddetto«ritorno alla religione». Nessun preteso disincanto, nessuna secolarizzazione viene a interromperla, anzi al contrario”.
Era la lezione di Hannah Arendt storica delle idee, che tutta la terminologia (e le forme e le procedure, specie in materia di elezioni, rappresentanza, autorità) politica moderna e contemporanea era derivata dal latino - ma attraverso e nella chiesa, che Derrida non nomina. La mondialatinizzazione peraltro Derrida teorizzava quando già l’Europa e la stessa cristianità romana avevano da tempo e con costanza rinunciato all’eredita latina.

Non luoghi – Hanno disidratato la letteratura. Che mentre è affollata, e moltiplicata nei tempi, accelerati, ritardati, fermati, proiettati nel futuro e nel passato, in millenni e anni luce, è singolarmente omogeneizzata in quanto ai luoghi. Che più non si danno – sono nominati, ma di nomi che suonano falsi anche quando sono veri, e a cui non corrisponde nessun carattere. Che è invece il proprio dei luoghi, quello che fa una cultura, e dà diversa dimensione alle personalità, e agli stessi eventi. La vita si vuole radicata.
Peter Handke lo dice di suo a Alessandra Iadicicco su “Lettura” domenica: “Sento la mancanza di una letteratura mondiale, di quella che Goethe chiama la Wetliteratur, che nasce dall’eterno scambio tra i popoli attraverso i confini e i linguaggi”. Mentre “i confini culturali” si fanno “sempre più forti”, i libri sembrano venire da un altro mondo: “I libri… sono scritti dappertutto nello stesso modo, in America, Russia, Cina”. Precisa: “Non parlo di libri veri”. Ma chi ne parla? 
Handke riferisce lo spaesamento a se stesso, come di un problema personale: “Sarà perché soffro da sempre per la mancanza di un luogo, perché dall’infanzia conosco il dolore dello sradicamento”. Questo è vero anche per gli “emigrati dall’interno”, per  esempio nell’Italia leghista – localista, campanilista, razzista.    

Traduzione – Non un’evasione ma una riscoperta della propria lingua, del proprio mondo, per il traduttore: una immedesimazione in se stessi. Una ricerca su se stessi prima che sul mondo del’autore  o del’opera d a tradurre.

“Tradurre è vampiresco”, sbotta Handke nella stessa intervista con Iadicicco, basandosi sulla sua esperienza personale: “Ti divora l’anima, non la nutre a sufficienza”. Ma poi riconosce anche lui che è servita a radicarlo – lui dice a salvarlo: “La lingua che usai per tradurre mi riportò al mio posto” - al tedesco, a Salisburgo, all’Austria originaria in vario modo rifiutata.

letterautore@antiit.eu

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