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Autofiction – Vira al sacro? Torneranno le prime comunioni? Anche
il catechismo. Invece dei turbamenti sessuali e le inevitabili crudeltà, mutuati
dalla psicoanalisi volgare.
In rapido sorpasso ultimamente dai social: Facebook, Insegreto, Instagram, PostSecret, Erbadelvicino,
Sfoghiamoci, Snapchat,
What’a app. Sarà per questo che i più assidui cultori del genere, Carrère,
Houellebecq, anche Veronesi, hanno virato al sacro. Come memoria meno frequentata,
o peccaminosa a rovescio, delle gelosie e le fantasie morbose - anche il sacro può
essere morboso, ma nel genere dilettazione, senza orgasmo, richiede cioè più raffinatezza.
Dante – “Ha messo in scena una delle più grandi autofiction della
storia letteraria”, dice Vittorio Sermonti, il suo massimo frequentatore . O
non voleva dire il contrario? Lo stesso Sermonti continua, parlandone con
Roberta Scorranese sul “Corriere della sera” domenica 31: “Scrive di un esilio
già avvenuto come se dovesse avvenire”. Un autore esiliato, e perseguitato nell’esilio,
come Dante è stato, non avrebbe parlato di altro. Lui è stato capace di
qualcosa dei tutto diverso.
Ancora Sermonti: “Dante si
meraviglia in continuazione. Delle miserie umane come delle altezze”.
Dialetto – Le intercettazioni di Mafia Capitale danno curiosamente
ai protagonisti delle cooperative ex carcerati, quelli che usano il romanesco
come vera lingua, una dimensione meno corrotta, e comunque non squallida, rispetto
ai loro interlocutori nell’amministrazione e la politica. I “burocorrotti” sono
falsi anche nella parlata. “Piccoli”, nel senso che la loro corruzione è
micragnosa, ed è anche diffusa – non è “mafia”, è proprio un modo di essere. Il
romanesco di Buzzi e Carminati è invece solido, disincantato come dev’essere il
romanesco (quello di Gadda, giustamente, non di Pasolini), misuratamente
inventivo (quel “mondo di mezzo”…) come in Belli, e non è avido. È acconciarsi,
uno che ha fatto vent’anni di carcere sa qual è il galateo, a un modo d’essere.
È una lingua “onesta”.
È una verità linguistica onesta,
quella dei capimafia di Prestipino e Pignatone, anche nei confronti dei
cronisti e dei commentatori. Tutti (più o meno) corrotti, nel loro piccolo
ovviamente, che si stacciano le vesti al lamento: “Gentaglia!”
Femminicidio – Continua a latitare in letteratura, malgrado sia al
centro dell’attualità, cui il romanzo da qualche decennio è sensibile. Ci sono romanzi
sul terrorismo, sulla pedofilia (ora in declino) e gli orchi, molti sugli immigrati,
il femminicidio invece non attecchisce. Nemmeno come “scrittura femminile”,
come usava dire. Nemmeno in aspetto esotico, il femminicidio in India o in ambito
islamici, delle figlie, delle sorelle, delle adultere, delle donne sole. È per stanchezza
dell’instant-novel? È che, malgrado il
clamore, il fatto è “scontato” – vecchio, tradizionale, al limite della follia
o del suicidio? O gli uomini, che ancora fanno i quattro quinti dei narratori,
non sono più “femministi”.
Primo Levi – È probabilmente l’autore più dantesco, anzi il solo,
del Novecento. Senza volerlo, ma più di altri che ci avrebbero ambito e ne
hanno fatto il progetto. Uno che all’inferno c’è stato realmente. E poi ha saputo
elaborarlo – l’elaborazione del lutto. Altri se ne sono fatti schiacciare, o ne
hanno fatto mercimonio, Primo Levi è andato molto più a fondo nell’ignominia. L’ironia,
il distacco invece del furore, lo tiene lontano da Dante, che è citazione facile che lui non fa, forse non amandolo, ma allora è un dantesco senza volerlo: i suoi racconti sono le “montagne”
dello sterminio, il suo viaggio notturno, “Se questo è un uomo” è l’“Inferno”, “La
tregua” il “Purgatorio” e il “Paradiso” insieme, col riso invece del sublime.
Mondialatinizzazione – “Il mondo oggi parla latino (più spesso attraverso
l’anglo-americano”, sostiene Derrida in un saggio del 1995, “Fede e sapere”. Lo
rileva in fatto di religione, parola
e concetto tutto latino, ma poi degli altri linguaggi fondamentali, giuridico,
filosofico e anche scientifico e “ciberspaziale”, tutti legati originariamente
alla religio. “La questione della religio non si confonde semplicemente,
se si può dire, con la questione del
latino?”.
Successivamemte, nel saggio-intervista
con Michel Wieviorka, su “Le Monde des Débats” del 9 dicembre 1999, Derrida precisa di usare
mondialatinizzazione al posto di “mondializzazione”, che il francese preferisce
a globalizzazione, “per prendere in conto l’effetto della cristianità romana che surdetermina oggi
tutto il linguaggio del diritto, della politica, e anche l’interpretazione del
cosiddetto«ritorno alla religione». Nessun preteso disincanto, nessuna
secolarizzazione viene a interromperla, anzi al contrario”.
Era la lezione di Hannah Arendt
storica delle idee, che tutta la terminologia (e le forme e le procedure, specie
in materia di elezioni, rappresentanza, autorità) politica moderna e contemporanea
era derivata dal latino - ma attraverso
e nella chiesa, che Derrida non
nomina. La mondialatinizzazione peraltro Derrida teorizzava quando già l’Europa
e la stessa cristianità romana avevano da tempo e con costanza rinunciato
all’eredita latina.
Non luoghi – Hanno disidratato la letteratura. Che mentre è affollata,
e moltiplicata nei tempi, accelerati, ritardati, fermati, proiettati nel futuro
e nel passato, in millenni e anni luce, è singolarmente omogeneizzata in quanto
ai luoghi. Che più non si danno – sono nominati, ma di nomi che suonano falsi anche
quando sono veri, e a cui non corrisponde nessun carattere. Che è invece il
proprio dei luoghi, quello che fa una cultura, e dà diversa dimensione alle
personalità, e agli stessi eventi. La vita si vuole radicata.
Peter Handke lo dice di suo a
Alessandra Iadicicco su “Lettura” domenica: “Sento la mancanza di una letteratura
mondiale, di quella che Goethe chiama la Wetliteratur,
che nasce dall’eterno scambio tra i popoli attraverso i confini e i linguaggi”.
Mentre “i confini culturali” si fanno “sempre più forti”, i libri sembrano venire
da un altro mondo: “I libri… sono scritti dappertutto nello stesso modo, in
America, Russia, Cina”. Precisa: “Non parlo di libri veri”. Ma chi ne
parla?
Handke riferisce lo spaesamento a
se stesso, come di un problema personale: “Sarà perché soffro da sempre per la
mancanza di un luogo, perché dall’infanzia conosco il dolore dello sradicamento”.
Questo è vero anche per gli “emigrati dall’interno”, per esempio nell’Italia leghista – localista,
campanilista, razzista.
Traduzione – Non un’evasione ma una riscoperta della propria lingua,
del proprio mondo, per il traduttore: una immedesimazione in se stessi. Una
ricerca su se stessi prima che sul mondo del’autore o del’opera d a tradurre.
“Tradurre è vampiresco”, sbotta
Handke nella stessa intervista con Iadicicco, basandosi sulla sua esperienza
personale: “Ti divora l’anima, non la nutre a sufficienza”. Ma poi riconosce
anche lui che è servita a radicarlo – lui dice a salvarlo: “La lingua che usai
per tradurre mi riportò al mio posto” - al tedesco, a Salisburgo, all’Austria originaria
in vario modo rifiutata.
letterautore@antiit.eu
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