Amarezza,
risentimento. Per i più giovani soprattutto, per molti “figli nascosti” e
nipoti, l’Olocausto dei genitori ha significato una vita perduta, angustiata fino
alla solitudine. Contro la patria, tanto più se nuova o priva di significato.
Contro l’ambiente di vita: vicini, conoscenti. Contro la famiglia stessa, e nel
fondo la “differenza”, religione o razza che si voglia.
Denise
Epstein, la figlia maggiore di Irène Némirovsky - aveva dodici anni quando la
madre fu internata a Auschwitz dove morì senza traccia - ha solo amarezza e
risentimento. Della madre ha saputo salvare molti testi importanti, tra essi la
famosa “Suite francese”, ma non si è riconciliata. Ha vissuto sposata, con
figli e nipoti, e con un lavoro, a Tolosa, ma non può dire sua la Francia. La
religione non c’è: l’ebraismo latitava in famiglia, il cristianesimo del tardo battesimo è una
barzelletta, una serie di barzellette. Nessuna gratitudine nemmeno per la
protezione in convento al coperto della Resistenza. Non c’è riconoscenza. Per l’editore
Albin Michel un po’, ma non per Julie Dumot, ex dama di compagnia dei nonni che
si assunse molti rischi all’inizio per portarsi tutrice delle due orfane, e inventò
dopo la guerra un para-consiglio di famiglia con l’editore Albin Michel, la
Société des gens de lettres e la banca dove lavorava il padre, per finanziarne
l’istruzione in un educandato, a pensione: Denise la sospetta di appropriazioni
e ruberie. La stessa banca, che la assumerà a diciotto anni, e si
occuperà anche della sua salute, è oggetto di vituperio. .
L’ebraicità
è una sorta di tara. Il sionismo ha tentato di rapirla in treno, a quindici
anni, come “figlia orfana” da educare in Israele. La nonna materna si è
rifiutata di accogliere lei e la sorella orfane nel 1942, e le ha diseredate
alla morte. I genitori erano superficiali che sapevano tutto e nulla
predisposero per salvarsi, loro e le figlie. Alle quali avevano imposto un’educazione
mostruosamente restrittiva: niente nuoto perché il mare è traditore, niente
scuola perché si prendono le malattie, le figlie confidando alle istitutrici. Una
madre che soprattutto scriveva: leggeva ai bambini i giornali dei bambini
perché ne era golosa (si abbonava col nome della balia), ma di suo scriveva, furiosamente,
come “una sorta di pre-scienza”, dice Denise, di presentimento.
La
sorella minore, Elisabeth, cinque anni al momento della fine, ha superato in
qualche modo il trauma, in “Mirador”, una memoria bilanciata, che sa essere
gaia talvolta anche sui fatti tristi – la nonna, le pellicce, le suore. Denise,
pur dedita alla memoria della madre, di cui sembra in foto la copia, non ha conservato
una goccia della di lei gioia di vivere. E lo sa, lo dice ripetutamente. Si è rassegnata e non si riconcilia, neppure
in questa tarda confessione a futura memoria. In odio
alle suore, seppure per motivi diversi, le due sorelle hanno vissuto separate,
ritrovandosi “molto tempo dopo”, con difficoltà – e solo in odio alle suore.
Denise
Epstein, Sopravvivere e vivere,
Adelphi, pp. 181 € 13
La serenità
ritorna da ultimo, nell’assistenza alla sorella in agonia, e nella riscoperta
delle radici. Ma più nella famiglia
russa della madre che in Israele, una sorta di consolazione – essere (considerata)
russa era la via d’uscita anche nell’autofinzione della madre operata da Elisabeth,
“Mirador”.
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