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martedì 16 giugno 2015

L’unione delle chiese - 3

“A Firenze nacque l’Occidente. Nel momento suo migliore, dell’umanesimo al governo. Ma nacque infetto: l’altra metà dell’impero lasciava all’islam e ai turchi sotto la parvenza dell’unione, e la stessa chiesa divideva: “Il concilio di Firenze rese inevitabile la Riforma”, esordirà Joseph Gill, gesuita, lo storico dell’assise. La riforma attesa “del capo e delle membra”, che sancisse la superiorità del concilio sul papa, fu elusa dall’unione con le chiese d’Oriente. Un secolo abbondante dovette passare per un nuovo concilio. E quando ciò avvenne la riforma era già ribellione antiromana.
“Il concilio di Firenze si era aperto a Basilea il 23 luglio 1431, quattro mesi dopo la morte del papa Martino V che l’aveva convocato. Era il primo dopo la provvisoria composizione dello scisma d’Occidente a Costanza a fine 1414, dove a un inedito concilio indetto dall’imperatore Sigismondo del Lussemburgo s’erano dimessi i tre papi regnanti, il romano Gregorio XII, l’avignonese Benedetto VIII e il papa del concilio di Pisa Giovanni XXIII, in favore di Martino V, Ottone Colonna, ma si aprì la strada alla divisione definitiva con la condanna di Jan Hus - il sant’uomo che morirà sul rogo ossessionato dai “corni del petto” delle donne. Poggio Bracciolini, segretario di Giovanni XXIII, rimasto disoccupato, ne approfittò per gite a cavallo nei dintorni, dove trovò, sotto la polvere dei conventi, numerosi testi antichi, tra essi Lucrezio, De rerum natura.
“A Costanza l’assemblea era stata pletorica, centomila presenze furono contate, tutte maschili, se si eccettuano mille prostitute, una ogni cento convenuti. Sarà la scena della Juive, il grand opéra di Halévy che mette in scena un buon cardinale e un perfido ebreo. C’erano 33 cardinali, 500 vescovi, 40 duchi, 32 principi, cinquemila preti, mille diplomatici, duemila universitari. Hus, rettore a Praga, s’era appellato al concilio contro i suoi vescovi con un progetto di riforma e per questo aveva avuto un salvacondotto imperiale. Ma il cardinale D’Ailly, rettore della Sorbona, lo fece arrestare e bruciare davanti ai centomila. La salma di Wyclif, ispiratore di Hus, fu esumata e anch’essa bruciata. Una crociata antihussita fu affidata al cardinale umanista Cesarini, e poi al Cusano, suo protetto.
“A Basilea i conciliari erano pochi: una cinquantina tra cardinali, vescovi e preti, e una dozzina di abati. Ma molti professori vi convennero, che ebbero la facoltà di votare, oltre che disquisire. Riferivano ai loro principi, che, litigiosi su tutto, si accordarono per ridurre i poteri del papa e prendersene i beni. Nelle venticinque sessioni tenute dal 23 luglio 1431 al 7 maggio 1437 si dibatté pure “di chi nella messa non canta tutto il Credo”, e di “chi dà in pegno il culto divino”. Eugenio IV, successore di Martino V, che aveva recepito il ricorso di Giovanna d’Arco, condannata come strega per avere promosso la liberazione dagli inglesi, decretando l’obbligo per ogni nazione di stare nei suoi confini, fu disobbedito pure in questo - del resto Giovanna era già stata bruciata il 30 maggio. Carlo VII di Francia appoggiò il concilio, col pensiero alla Prammatica Sanzione di Bourges, che priverà il papa delle rendite in Francia. Per Filippo Maria Visconti il concilio era filotedesco. Gli aragonesi accusarono il pa-pa di favorire a Napoli gli angioini. Cusano, il giovane tedesco pupillo del legato papale Cesarini, contro il papa scrisse La concordia cattolica.
“Eugenio IV, Gabriele Condulmer, reagì decretando il concilio chiuso il 18 dicembre 1431 e riconvocandolo dopo diciotto mesi a Bolo-gna. Salvo riconoscerlo legittimo di nuovo nel 1433. Riuscì infine a convocarlo a Firenze, dopo una pausa a Ferrara, subentrata a Bologna. Condulmer, veneziano, era stato vescovo di Siena a diciassett’anni e cardinale a diciotto per volere dello zio Gregorio XII, ma era già agostiniano e aveva donato ai poveri i suoi ventimila ducati. Da Firenze tentò invano di rabbonire i conciliaristi, facendo recitare il 4 settembre 1438 le due tesi, contro e pro Basilea, da Giovanni Torquemada e dal Cesarini. (il cardinale Torquemada, zio dell’inquisitore, n.d.C.). I concili, che sono il test più antico della democrazia di massa, anteriore alla dieta polacca, anzi di poco successivo al Cristo, e assemblano persone colte, di comuni intenti, scelte dai poteri esistenti, senza una guida superiore diventano incontinenti: la democrazia è sempre un inizio e si rinnova, nessuna lezione è definitiva, ma non c’è buon’assemblea d’intellettuali se non è governata.
“I contestatori erano ancora a Basilea quando a Firenze si proclamò l’unione, e benché ridotti al cardinale di Arles e a trentadue elettori, quasi tutti laici, condannarono il papa in otto punti, la città dei Medici dichiarando “Sodoma, Gomorra e Babilonia”. L’orgoglio è il primo dei vizi, che è sempre intellettuale. Deposero anche Eugenio IV, e al suo posto elessero Amedeo VIII duca di Savoia. Vedovo e con quattro figli viventi, Amedeo VIII si disse felice, Felice V, e come sede scelse Losanna – la Svizzera non era ancora neutrale e riservata ma la città gli era fa-miliare. Come segretario i conciliaristi gli diedero l’umanista Enea Silvio Piccolomini, che sarà poi papa romano, Pio II, e ne riaffermerà i poteri.
“Firenze fu per un quindicennio la nuova sede del papato. I Colonna, eredi di Martino V, avevano scatenato contro Eugenio IV l’inva-dente Filippo Maria Visconti, il duca di Milano. Il papa si comprò i servizi di Francesco Sforza, che vent’anni dopo succederà ai Visconti per averne sposato l’erede Bianca Maria, e riuscì a mettersi in salvo a Firenze. Tornerà a Roma nel 1445, in tempo per morirvi, grazie a tre influenti intellettuali, Cusano, Piccolomini e Lorenzo Valla, lo stesso che aveva scoperto falsa la donazione di Costantino che fonda il potere temporale dei papi, riconducendola al primo complotto franco, al tempo e a opera di Pipino. Piccolomini aveva presto lasciato Felice V, che del resto fu felice di ricomporre nel 1449 lo scisma accettando un onorifico cardinalato di Santa Sabina da papa Niccolò V, Tommaso Parentucelli -  quello che, avendo perduto il Mediterraneo ai turchi, si sarebbe rivalso sull’Africa.
(continua)

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