“Barlaam, monaco dell’ordine dei basiliani,
greci passati all’osservanza latina, nato e cresciuto a Seminara, feudo
angioino nell’ex Thema di Calabria, piccolo, esile, maestro di Leonzio Pilato
che insegnerà il greco a Petrarca e Boccaccio, tentò dal 1329 al 1341 di
salvare Costantinopoli in alleanza coi latini. La stessa Grecia d’Italia era
ancora divisa. Un “Opusculum contra Francos”, redatto in latino nel tredicesimo
secolo, prova la persistenza della vera fede: “I calabresi sono ortodossi da
sempre”. Mentre Antonio de Ferraris, detto il Galateo, da Galatina
in terra d’Otranto, che fu di rito greco prima di ospitare il famoso castello
delle messe gotiche, difendeva la donazione di Costantino al papa, architrave
della latinità. Si sperava insomma nel superamento dello scisma, Unus Deus, una Fides. Anche se Dio aveva
disposto altrimenti. Del resto, i greci di Turchia, pochi per la verità, non si
chiamano tuttora romei, e non elleni, come i greci della Grecia – oltre che pòlitis e polìtissa, i cittadini per eccellenza, della città per eccellenza,
che fu Costantinopoli.?
“Nel
1329 Barlaam si recò in “terra romana”, cioè a Costantinopoli, chiamato da
Giovanni Cantacuzeno, megas domestikos
di Andronico III Paleologo, il giovane imperatore che nel 1328 aveva costretto
Andronico II ad abdicare, per conto degli unitaristi. Delineò un compromesso
per disinnescare la questione del Filioque, ma fu contestato e sconfitto
da Gregorio Palamas. Non sostenuto dal papa, Benedetto XII: ambasciatore di
Andronico a Avignone, Barlaam non ne ottenne nulla. Non c’è dubbio in questo
caso che il papa era dei franchi. Quando Andronico III morì, nel 1342, Barlaam
tornò a Avignone, dove il papa Clemente VI lo pensionò vescovo di Gerace. Andrà
e verrà da Avignone a Gerace, via Napoli, allora nobilissima per l’impulso di
Roberto d’Angiò, “il Re da sermone di Dante”, che l’aveva adornata della
maggiore biblioteca in Europa, fino alla morte nel 1348, di 58 anni.
“Contro
il fondamentalismo ortodosso, Barlaam pretendeva autonomia per il sapere “esterno”,
esterno alla fede, sulla base dei Vangeli e di san Paolo. Ma agli esicasti
rimproverava di voler mantenere l’intelletto nel corpo. Fu facile a Palamas
obiettare che il corpo non è l’opposto dell’anima, e anzi deve avere “una
natura conforme a essa”. E che, Dio essendosi incarnato, i doni dello Spirito Santo
passano per il corpo, le mani, gli occhi, la lingua.
“Al
Concilio Tridentino Barlaam fu creduto due, uno d’Oriente e uno d’Occidente,
uno sconosciuto. Per lo storico della chiesa Viller era un secolo fa un
israelita, che adorava contemporaneamente sia Geova che Baal.
“Entrambi
i monaci, Barlaam e Palamas, temevano i “turci”. Ma mentre Barlaam consigliava
di legare la futura Turchia al resto d’Europa, Gregorio volle salvarsi da solo
con la vera fede. Per questo attuò un vero colpo di Stato, con l’aiuto di
“Anna”, Giovanna, di Savoia, l’imperatrice vedova di Andronico III e madre del
successore Giovanni V Paleologo, che impegnò con Venezia i gioielli personali e
della corona per finanziare la sua spregiudicata politica. Contro Giovanni V,
che aveva nove anni, Palamas arruolò Cantacuzeno, il primo ministro.
Cantacuzeno si dichiarò coimperatore, Giovanni VI, e si garantì l’appoggio
dell’imperatrice sposandone la figlia Irene. La coppia ispirerà una poesia a
Kavafis, “Vetro colorato”, di notevole intelligenza storica: “Avevano soltanto
poche pietre preziose,\ e così ne portarono di false. Un cumulo\ di pezzetti di
vetro, rossi, verdi, celesti”. I Cantacuzeno tenteranno di unificare le due
cariche imperiali nel proprio figlio Matteo, ma coi gioielli di vetro erano
destinati a uscire dalla storia. Non prima però di avere assicurato il successo
a Gregorio Palamas, la Trinità riducendo ad appendice della numerologia – la
quale porta al diavolo, e non per colpa di Gödel, della matematica.
“La
tendenza latina era forte a Oriente, includendo il patriarca Kalekas, i cui
epigoni hanno ripiegato in Sicilia a fare ottime ceramiche, e l’imperatore
Andronico III, che pure era stato cresciuto da Palamas padre. Ma Gregorio
Palamas aveva avuto sul monte Athos la visione di san Giovanni, il discepolo
prediletto, figlio del tuono, nella luce increata del Monte Tabor, la stessa
che gli apostoli videro nella Trasfigurazione, che gli ingiungeva: “Illuminami
le tenebre!”, e non desistette. Gregorio non temeva la debolezza dell’impero:
“La povertà”, scrisse, “genera l’assenza di timori”, la quale genera vigilanza,
che “elimina le percezioni costituite”. Aprendo “la via della virtù”, che
assicura “la gioia e il servizio felice dell’anima”. Non
male pure la teologia: increata e divina è per i latini solo l’essenza di Dio,
mentre Palamas volle divine e increate pure le manifestazioni dell’essenza di
Dio. Senza le manifestazioni del resto l’essenza sarebbe priva dell’essere –
Heidegger ci deve ancora arrivare. La verità inoltre si differenzia per lui dalla falsità
solo per pochi tratti. E ancora, essi sono rilevabili, definibili, solo
eticamente: dipende da ciò che si vuole.
“Gregorio
bloccò il sinodo del giugno 1341, convocato dagli unitaristi sul letto di morte
di Andronico. Dopo due mesi, con un suo sinodo di poche ore, completò il golpe
e aprì la capitale al Cantacuzeno. Lui pagherà per questo con la prigione e
l’esilio, la città con la guerra civile. Il 2 febbraio 1347 il partito
antilatino vinse, col patrocinio di nuovo di Anna di Savoia. E poi perse: la
corona resterà a Giovanni V Paleologo, Cantacuzeno si farà monaco. Ma già i
turchi s’aggiravano in periferia. Gregorio sopravvisse aggregandosi a Stefano
Dušan, il re degli illiri, ex alleato del Cantacuzeno, che ne pagherà il
riscatto quando il futuro santo sarà ostaggio dei turchi – gli illiri, oggi
serbi, l’unica popolazione allora combattiva dell’impero, erano detti triballi,
con tre palle.
“Quando
gli unionisti chiedono un nuovo sinodo, nel 1351, Palamas è ancora isolato, ma
riesce lo stesso a bloccarli. Sarà santo pochi anni dopo la morte nel 1359, di
63 anni: ha guarito mani anchilosate e incontinenze corporali, ha provato che
il buon autore del colpo di Stato deve difendere la libertà, e ha trovato una
“e” che divide, che solitamente unisce. Soprattutto a Istanbul, che è stata
bizantina e romana, e ora è orientale ma vuole diventare occidentale. La vera
fede è inconciliabile: “Va’ e scavezza il papa”, incitava due secoli prima lo
svevo palermitano Federico II in pungenti esametri greci il cartofilace Giorgio
di Gallipoli, archivista del locale vescovo, greco.
“Barlaam
aveva ragione, converrebbe il conquistatore Mehmet II, che i suoi turchi disse
i teucri di Omero, i vendicatori dei perdenti di Troia che poi fondarono Roma,
e l’Occidente. Ma alcune cose non si dicono. Nulla più è armeno, per dire. Per
esempio il caffè, che per essere diventato turco è innominabile in Grecia. Ma,
poi, né in Grecia né in Turchia piace, lo fanno per i turisti, nescafè
ribollito”.
(fine)
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