Una storia a cannocchiale come è
consueto per Simenon, di un delitto che ne rivela un altro, come un fuoco
d’artificio nero. Il cadavere che un giudice a riposo si ritrova in casa e di
cui tenta di sbarazzarsi in mare con l’alta marea è l’innesco di molte altre
vicende, anche qui più turpi che non.
I racconti di Maigret più ancora di
quelli “duri” sottolineano la capacità di Simenon di fare letteratura durevole
con una scrittura “bassa”: colloquiale, disadorna. Applicata a un mondo grigio,
disadorno, come nei racconti “duri”.
È il mondo, sempre, del Nord. Non detto,
ma non ce n’è altro. Di maree, nebbie, acquitrini, marcite, paludi, biliardi, alcol,
mescite anonime, periferie urbane, paesi senza anima. Simenon ama il Sud, ma lo
scrittore si vuole del Nord.
Anche questo, come altri Maigret,
s’impersona ormai nell’ammirata serie tv di Bruno Cremer. Ma l’originale è
diverso. Maigret è, sì, “enorme”, “pesante e flemmatico”, fuma la pipa e beve,
ma porta la bombetta, ha la schiena a volte “curva”, “le spalle incassate”, a
volte “una sfumatura di ansia” sul viso, ed è seguito dalla moglie. Anche in
Vandea, dove il commissario è stato esiliato da Parigi. Ed è di destra. Nessuno
e niente lo dice, ma simpatizza con i
delinquenti, anch’essi vittime, e non
ama i benpensanti. È distintamente anni1930, mentre quello di Cremer è
postbellico, anni1950-1960, e anche questo fa un’atmosfera.
A differenza di Montalbano, che Alberto
Sironi nella serie tv miglior molto, Maigret scritto è invece meglio: svelto,
semplice, denso. Le sceneggiature di Maigret seguono passo passo il libro, fin
negli aggettivi, e Cremer è malgrado tutto Maigret, ma è una filologia che lo
limita al cinema, mentre Montalbano è Zingaretti, non può essere altrimenti.
Georges Simenon, La casa del giudice, Corriere della sera, pp.145 € 1,90
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