Sibilla
Aleramo è morta santa comunista. Onorata personalmente da Togliatti e Nilde
Jotti, con un posto d’onore all’Istituto Gramsci e carte bene archiviate, soprattutto
l’interminabile e curatissima corrispondenza, all’Istituto stesso e di
conseguenza alla Biblioteca Nazionale – onore quasi unico fra i contemporanei
del Novecento. Ma fu romanziera e poeta di nessun rilievo postumo, la stessa
“Una vita”, l’esordio fulminante nel 1906 di cui farà tesoro una vita, si
rilegge posticcia e artefatta –il romanzo è considerato un classico del
femminismo, ma allora di un femminismo posticcio e artefatto. Si volle e fu un
personaggio, questo sì. Poteva indubbiamente piacere, ed ebbe molti amanti,
questo sì. Almeno a sentire lei: tutto si basa sulla sua enorme corrispondenza,
accuratamente catalogata, e sui suoi romanzi, tutti autofiction, romanzamenti di queste relazioni. E questa è tutta la
storia.
Se non
che Sibilla Aleramo è, dopo Pasolini, il solo scrittore del Novecento di cui si
coltivi la memoria. Simone Caltabellota si è appena prodotto in un romanzo
verità sul suo (breve) amore con Giulio Parise. Si ripubblica la corrispondenza
con Dino Campana, uno dei tanti che Sibilla inseguì golosa – e, un po’meno, quella
con Quasimodo, che era un freddo.. Si promuovono perfino convegni e
celebrazioni. Questo è stato, e resta, il libro seminale del monumento. Non
convinto per la verità. Cioè sì, ma ogni poche pagine ributtato indietro dalla
materia, poco commestibile.
Donna
assetata di vita, oppure opportunista? La caricatura della poetessa e della
femminista - se ne incontrano tante
tuttora a Roma, sopratutto su marciapiedi della cittadella politica, tacco
dodici, tra Montecitorio e il Senato? Donna libera, ma da se stessa lo fu mai?
Al capitolo che ha scelto come iniziale, la preparazione all’incontro tanto
vagheggiato con Mussolini, da cui vuole farsi nominare accademica d’Italia, de
Ceccaty così la descrive – sui cinquant’anni: “È una donna graziosa ma dalle
forme un po’ appesantite: si crede bella, e ha conservato in effetti una certa
eleganza altezzosa, ma adesso è povera e avvilita dall’oscurità cui l’hanno
condannata i suoi troppo numerosi voltafaccia politici e letterari, le sue
infatuazioni amorose troppo affrettate”, affettate. Il secondo capitolo è
intitolato “Lo stupro”, ma non si capisce di chi a chi. Forse del figlio
abbandonato a balia, nato a nove mesi dal matrimonio, e mai più ricercato. Lei
rincorrerà sempre gli uomini.
Più che
dal personaggio, de Ceccaty sembra affascinato dai “rigiramenti”:
l’insensibilità che diventa sensibilità, il fascismo antifascismo, il
carrierismo dedizione. O dalla corrispondenza, che lei pratica con costanza, e conserva – una documentazione
che induce alla biografia, facile facile. L’unica storia filata senza
rovesciamenti è quella degli amanti – de Ceccaty censisce una trentina di
approcci. Si comincia con Felice Diamanti, letterato di Milano, che le dice:
“Lei somiglia a un personaggio dei romanzi di Neera”, senza ironia, da una
parte e dall’altra. Poi viene Giovanni Cena, che le inventa il nome d’arte, e
la “fa” scrittrice, autrice nel 1906, a trent’anni, di “Una vita”, “un
avvenimento letterario considerevole”, dice de Ceccaty, di cui vivrà per altri
54 anni. E in ordine cronologico: Lina Poletti, Vincenzo Cardarelli (che però è
impotente), Giovanni Papini, per quanto brutto, pieno di sé, e ammogliato con
una santippe, Joe Luciani, un giovane di 19 anni, lei di 36, che poi sarà
farmacista e Tunisi, un’avventura molto romantica l’estate in Corsica l’anno di
Papini, col quale di giorno continua a corrispondere furiosamente, Vincenzo “Franco”
Gerace, un bibliotecario napoletano a Firenze, una relazione “delle più stolide
che abbia mai vissute, motivata da una forte sensualità”, il bibliotecario non
è di gran nome, Valéry Larbaud per un paio di notti, un gentiluomo che non le
farà mancare successive attenzioni, sempre col garbato “voi”, Boccioni, Rebora,
Cascella, Boine, Dino Campana naturalmente, il colpo meglio riuscito, alla cui
storia resterà indelebilmente legata, per un rapporto di appena sei mesi,
fecondo di niente, Federico Agnoletti, uno che aveva una moglie, tre figli e
un’amante inglese, Raffaello Franchi, poeta di 16 anni, lei di 42, altro buon
investimento, farà “Solaria”, Giovanni Merlo, altro giovanissimo, recluta ad
Albano, amico di Rebora, ricchissimo questo (farà, ventenne, il mediatore di
residuati di guerra), col quale passa le notti allo Hassler a Trinità dei Monti,
Tullio Bozza, altro giovanissimo, Evola, Giulio Parise, giovane ma esoterico
discepolo di Evola, “un gigolò mistico” lo dice de Ceccaty, uno che non si
concedeva alle molte donne di cui figurava amante, faceva godere esibendo le
sue bellezze nudo, il deputato socialista Zaniboni, che subito dopo attenterà a
Mussolini, Enrico Emanuelli, altro giovanotto benché ottimo scrittore, e naturalmente
Quasimodo, lei già di 60 anni, lui in cerca avida di riconoscimenti, impiegato
del Genio Civile tra Reggio Calabria e Sondrio. La storia finale è con Franco
Matacotta, un ventenne di Fermo che vuole fare il poeta – con l’aiuto del Partito
ci riuscirà – e sarà lunga, piena di risentimenti, lui naturalmente si sposa a
fa vita propria, non ultimo sull’edizione delle lettere con Campana, che Matacotta
cura e poi contesta.
Pasolini
sarà guardingo. Come già Proust, benché preso d’assalto. Fece la posta più
volte a D’Annunzio, l’ultima a lungo, ospite del Vate in albergo a Gardone, che
però non apriva le sue lettere appassionate. Ci tentò anche con Croce, che la
trattò paternamente, rimproverandole l’abbandono del marito e del figlio - “Non
faccio il moralista a buon mercato.. (ma ) non ho mai creduto alle
giustificazioni ideali che avete dato di ciò nel vostro libro” – e si meritò,
alla morte della moglie, un viperino “godeva con tutta Napoli, alle sue
spalle”, alle spalle del filosofo.
Prezzolini,
che era suo amico, l’aveva detta “levatrice sessuale della letteratura
italiana”, e lei ha tenuto fede all’impegno. Da ultimo sarà accudita da Alfio
Lambertini, pittore, e Adriano Vitali, poeta, “due ragazzi di trentacinque anni”,
li dice de Ceccaty, “belli, forti”, comunisti, gay. E dal Pci, che le trova
casa e la omaggia periodicamente su “l’Unità”, al premio Viareggio, e all’Istituto
Gramsci, che tuttora ne cura la memoria, con nomi eccellenti, Sergio Solmi,
Zavattini et al..
Che
dirne? Scritto in francese venticinque anni per l’editore Julliard, col titolo
“Nuit en Pays Étranger”, probabilmente come romanzo scandalistico, questo
Sibilla” non è storia e non è romanzo - è una delle poche “Scie”, l’unica
forse, non riprodotta negli Oscar. Colpa anche di de Ceccaty, che è innamorato
del suo personaggio, ma non convinto. A volte anzi impietoso. Quando Mondadori stampò
le sue poesie in volume, Sibilla ne mandò copia “agli amici parigini, tra cui
Maurice Barrès, che lasciò la sua copia alla Biblioteca Nazionale, dove sono
stato il primo a tagliarne le pagine”. Non è la sola perfidia. Di Aleramo
sostiene di aver trovato la prima traccia “in «Descrizioni di descrizioni» di
Pasolini. Parlando della corrispondenza Campana-Aleramo, egli deplora il fatto
che «di un poeta come Dino Campana si sia impadronito la destra letteraria»”.
Non lusinghiero, considerando che Sibilla era allora una colonna del Partito..
De
Ceccaty, editore, traduttore, studioso italianista di grande sensibilità, che
ha lavorato molto proficuamente su Leopardi, Moravia, Pasolini, da ultimo anche
Maria Callas, si pende per 400 pagine per virtualizzare un soggetto volgare.
Salvo l’incidente iniziale, “Una vita” dal sen fuggita, se fu farina del suo
sacco, la protomemoria femminista del 1906. Un esercizio di bravura, se si
vuole, ma a ogni pagina irritante, come se lo scrittore e critico chiudesse gli
occhi e si tappasse il naso. La scrittura è svogliata, nei lunghi dialoghi di
cui ritiene necessario farcire la narrazione, addirittura ridicola. A meno che
questa “vita” non sia involontaria, un’esercitazione “alimentare”, e al fondo
cattiva, satirica.
Non c’è
altra traccia della poetessa che una serie di adescamenti, non ne resta altro.
Che Togliatti volle nobilitare, dopo Mussolini e la regina Elena, disponendone
l’archiviazione, tanto accurata (non c’è autore del Novecento altrettanto
curato) quanto inutile, e l’assunzione tra i santi del Partito, oggetto di
culto quindi periodico.
René de
Ceccatty, Sibilla
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