Una satura
all’uso antico. La prima opera Alvaro ha inzeppato di tutto: la
novella, il romanzo, l’autobiografia (il romanzo delle origini), la
provincia e la metropoli, la campagna e la città, la fuga e il
nostos,
nostalgia e ritorno. C’è anche un tentativo di dramma borghese,
dialogato. L’effetto è raffazzonato. Si vede in questa riedizione
- l’ultima, ormai di vent’anni fa - che il curatore Natale
Tedesco ha voluto quella originaria, del 1921-22, mentre lo stesso
Alvaro era intervento dodici anni dopo a riscrivere il tutto,
accorciandoolo di un terzo. Anche incongruente, e troppo parlato
benché breve. Non ben raccontato. Perfino sbiadito, malgrado le
insistenze – non ha fisionomia nemmeno il protagonista, incerto a
partire dal nome, Babel o Babe. Pieno di umori sì, come sempre in
Alvaro, forse strapieno.
Tante cose sono soprammesse. Appiccicate. Il filo è l’uomo della
donna, fatto (disfatto) dalla donna: l’editore dice il protagonista
“un giovane reduce meridionale”, e invece non è più giovane, è
stato marito a lungo, con suocera e cognati, ed è vedovo, reduce
dalla battaglia dei sessi - ed è “uomo” nel senso non di essere
umano ma di opposto alla donna, benché femministo.
Quindi, benché ragioni molto e molto si riservi, per altri arcane
riflessioni, è una larva, come personaggio e come
uomo-marito-vedovo-amante. Fino a concludere, senza vergogna:
“Purezza. Se vi fosse un poco di purezza, se io trovassi un po’
di purezza, sarei riscattato”.
Oppure si può
prendere la lettura dall’altro capo, critico. Walter Mauro e
Tedesco tengono l’opera in grande pregio: per le novità. Tedesco
ci vede perfino, in anteprima, il tradimento degli intellettuali. Qui non è questione di intellettuali, non c’è nessun società
sullo sfondo, è questione d perdigiorno. Ma le novità ci sono. Il dettaglismo di Proust, che Alvaro fu uno dei primi a leggere e il
primo a tradurre. Insieme con la fenomenologia, dei sentimenti, di
amore, di amicizia, dei loro contrari. E la Nuova Oggettività povera
delle attuali scuole di scrittura: nomi falsi, situazioni avulse,
personaggi disincarnati. C’è (poco) l’espressionismo, nel senso
di mettere le viscere all’aria. C’è già l’incipiente – ora
- post-femminismo. C’è molto l’uomo senza qualità,
pirandelliano naturalmente, ma più vero di quello musiliano che sarà
poi l’originale - l’uomo senza qualità è, dev’essere, un
piccolo borghese, presuntuoso e confuso. E un anticipo
di scuola dello sguardo. Ci sono fermenti europei, sempre vivi, di
questo grande provinciale – il finale è il nostos,
con le donne affacciate alle finestre curiose, “come tartarughe
fuori dal guscio”, su fino alla “Stalla”, il palazzo
abbandonato che è ora una discarica, a scrivere lettere all’amata
che ha abbandonato: “Era come vedere i cenni di un muto che si
sforzi di parlare”.
Un racconto
enigmatico? Per un effetto d’incertezza che è il segno maggiore
della sua “contemporaneità”.
Corrado Alvaro,
L’uomo nel labirinto
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