Lo Hannah Arendt Center riassume nella sua newsletter “Amor
Mundi” la polemica che colpi Hannah Arendt alla pubblicazione, ponendola sotto
il segno dello humour. Se è bene per
un filosofo essere spiritoso e comunque esserlo su certi temi, se certi temi
comunque sono e devono andarne esenti. Partendo dall’ammissione che la stessa Arendt
fece, a conclusione della polemica, nell’intervista con Günter Gaus il 28 ottobre 1964: “Mi rimproverano per una cosa – e posso
anche capirli, in qualche misura – e cioè che posso ancora ridere, non è così? È
vero. Ero dell’opinione che Eichmann era un buffone, e le dirò, leggendo gli
interrogatori di polizia, 3.600 pagine, molto attentamente, non so quante volte
ho riso, ma sonoramente. Ora, questa reazione è ciò che mi viene rimproverato. Non
posso farci nulla. Ma so una cosa: sarei probabilmente capace di ridere ancora
tre minuti prima (della morte). E questo, dice lei, è il tono: il tono ampiamente
ironico. Sì, è proprio vero. Esattamente, il tono è in questo caso realmente l’essere
umano. Quando mi rimproverano di avere tra le righe accusato il popolo ebraico,
questa è una bugia maliziosa e propaganda, nient’altro. Il tono, invece, è un’obiezione
contro di me come persona, e non posso farci nulla”.
Hannah Arendt non dice se ha diritto a essere spiritosa.
Dice solo che è fatta così. Ma il riferimento alla “propaganda” (in Israele,
n.d.c.) in qualche modo lo dice. L’offesa era aver definito nella
corrispondenza (il libro è il rifacimento delle corrisponde sul processo per il
settimanale “New Yorker”) Eichmann un “sionista”. Rispondendo a Gerschom Scholem,
che glielo contestava, Arendt non si sofferma a specificare che anche lei ha fatto
parte e ha lavorato a Parigi per il movimento sionista, ma va diritta al fatto.
Che è un fatto grammaticale e sintattico: “Non ho mai fatto di Eichmann un
sionista. Se hai mancato l’ironia della frase – che era chiaramente in oratio obliqua, riportando le proprie
parole di Eichmann – non posso farci niente”. È vero che c’è gente, anche di grande
personalità come Scholem, che è impervia all’ironia.
Scholem diceva di più, rimproverava l’amica di leggerezza, “intendo
l’inglese flippancy”, e di mancanza
di cuore (Herzenstakt, tatto di
cuore). Ma qui la risposta di Hannah Arendt era semplice: “Io non «amo» gli
ebrei, né «credo» in loro; io semplicemente appartengo a loro, come un dato di
fatto, non c’è da discutere”.
Da testo contestato, anche aspramente, il reportage di Hannah Arendt è passato comunque a classico del semitismo. C’è stata ultimamente una conversione nell’ebraismo, sulla valutazione del “volenteroso esecutore” Eichmann, e sul processo che lo fece protagonista e quasi artefice dell’Olocausto. Mentre per la filosofa era il caso esemplare di un suo problema peprsonale, da ebrea malgrado tutto tedesca: perché nesuno era colpevole nella Germania del dopoguerra.
Hannah
Arendt, La banalità del male. Eichmann a
Gerusalemme, Feltrinelli, pp. 320 € 10
Da testo contestato, anche aspramente, il reportage di Hannah Arendt è passato comunque a classico del semitismo. C’è stata ultimamente una conversione nell’ebraismo, sulla valutazione del “volenteroso esecutore” Eichmann, e sul processo che lo fece protagonista e quasi artefice dell’Olocausto. Mentre per la filosofa era il caso esemplare di un suo problema peprsonale, da ebrea malgrado tutto tedesca: perché nesuno era colpevole nella Germania del dopoguerra.
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