domenica 5 luglio 2015

Letture - 220

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Autore prigioniero – Come i suoi personaggi, l’autore, che pure si reputa il creatore per eccellenza, può essere prigioniero. Della propria fine, del proprio inizio, di una fama, di una voce. Che più spesso non gli corrispondono. Corrado Alvaro, poliglotta cosmopolita, del terragno “Gente in Aspromonte”. Carlo Emilio Gadda, ben milanese, del romanesco “Pasticciaccio”. Il Salinger dei racconti “giovanili”, metropolitani,urbani, manierati, che anzi ha creato una maniera di essere giovani, di parlare, pensare, muoversi, per più generazione, era misantropo anche da giovane. Irène Némirovsky è prigioniera della propria fine, benché ostile e persecutoria. Che l’ha fissata nell’ebraismo, dal quale invece voleva uscire. Non come essere, non si poneva un problema di razza, ma come modo d’essere o etichetta.
Il caso di Irène Némirovsky è talmente ingombrante che si ripercuote sulle figlie, come una sorta di destino incontornabile. Denise e Elisabeth hanno avuto una vita normale  - normale come poteva essere quella degli orfani della guerra. Prima di essere risucchiate nella fine tragica nella “causa” della madre, che si vuole di “differenza” (che invece la angustiava) e di risentimemento (da cui era remotissima). In “Mirador”, l’autofinzione “sognata” della madre svanita prima del ricordo, Elisabeth Gille (Némirovsky) imprigiona la madre nella questione ebraica per trecento insistite pagine, sull’ebraicità rifiutata, sottovalutata. Mentre la sua vita brevissima – Irène Némirovsky morì di 39 anni – si era ben riempita di altro.
I casi in tema di ebraicità, cioè di un’identità forte, sono numerosi. Stefan Zweig fu criticato in Israele e a lungo ostracizzato, per la sufficienza, per la sottovalutazione della minaccia. In realtà per l’assimilazione. Lui che aveva visto i suoi libri bruciati, era dovuto andare in esilio, ed era morto suicida nel 1942.

Beat – L’altro “fenomeno” letterario del Novecento era di destra o di sinistra? Le droghe, il vagabondaggio e la promiscuità lo pongono a sinistra, ma gli autori non lo erano. Allen Ginsberg sì: era di famiglia comunista, fu di tutte le cause, e partecipò da pacifista anti-Vietnam a Chicago nel 1968 alla contestazione da sinistra della convenzione democratica, e poi al processo ai Sette in conseguenza della protesta - ma era già buddista e krishnaista, e fu a disagio in Italia, quando ebbe problemi con la polizia a Spoleto per fatti di droga, con i comunisti. Kerouac sicuramente no, mammone e religioso, fino alla superstizione. Era un reazionario il loro nume William Burroughs, che non aveva rinunciato, contrariamente alla vulgata, all’eredita delle macchine da scrivere e anzi fu sempre mantenuto dalla mamma, e considerava i Repubblicani troppo di sinistra. Styron, che lo incontrò a Parigi negli anni 1950, mentre metteva a punto “Il pasto nudo”, lo dice in una lettera scandalizzato dalla presidenza Eisenhower, quella “sporca ghenga di rossi” – “un personaggio assolutamente stupefacente, con la grigia folle faccia del Savonarola….  Mi ricordava  di niente tanto quanto di una povera vecchia lesbica, molto affettato e riservato e a modo, che parlava della nostra attuale amministrazione repubblicana come di quello «sporca ghenga di rossi»”.

Dante – La “Divina Commedia” c’era già – il vagabondaggio per l’aldilà  - nell’ “Atarva-Veda” e nel “Canto del sole” dell’“Edda”, m anche in numerosi “libri di visioni” monastici, oltre che nel “Libro della Scala” di Maometto. E naturalmente, in altra forma, nel testo più diffuso dell’antichità, il sogno di Scipione Emiliano alla corte numidica del re Massinissa, raccontato da Cicerone nel Libro VI del “De Republica”, il “Somnium Scipionis”, il paradiso dei patrioti. E il mito platonico di Ero nella “Repubblica”.
Tutto l’Ottocento ha scavato queste origini: Ozanam, Wright, D’Ancona. Il viaggetto nell’aldilà era consueto, nota di passata D’Ancona, tra i greci e i romani – talmente diffuso da suscitare i sarcasmi di Seneca e Giovenale: era un “necessario complemento alla dottrina dell’immortalità dell’anima”. A Platone cioè, alla “meravigliosa tradizione di Ero di Armenia” nella “Repubblica”. Nel “Fedone” in effetti c’è già la tripartizione dell’aldilà per i curiosi: Purgatorio (il lago Acheruseide), Tartaro, e l’alta dimora dei filosofi. Più precisa ancora la tripartizione in Plutarco.
Ma, poi, le visioni dell’aldilà sono “normali” nella storia – specie nella storia della letteratura. Come viaggi e come sogn.

Indizio – Più della passione, da sempre dominante, è (da un secolo?) la materia letteraria per eccellenza. Da un secolo? Da Freud?  Dalla pratica medica? Conan Doyle, prima d’inventare Sherlock Holmes e gli indizi, faceva il medico ospedaliero, confrontato in continuo alla diagnosi, magari senza occhio clinico, o forse con l’occhio clinico troppo fertile.
La materia, cioè, sono i cattivi pensieri. La narrazione, psicologizzante o giallistica, è impegnata a scovarli.

Infanzia – È la materia privilegiata delle narrazioni. Il ricordo, la ricostruzione, la mimesi del mondo infantile. Sempre incompleta, e necessariamente inattendibile, e quindi più fertile. Un deriva non collegabile con Freud, per il quale l’infanzia è importante ma non assorbente - mentre c’è poco in questo grato rimembrare del Freud centrale, l’Edipo, l’incesto, i tabù.

Joyce – Debutta parnassiano, nelle poesie raccolte in “Musica da camera”, 1907: l’impronta è evidente, benché non programmatica. Joyce, studente di lingue moderne all’University College, fu dapprima appassionato dell’Ottocento francese, prima che di Dante e l’italiano. Anche i racconti, coevi, si possono rileggere accostandoli a Gautier, Banville, Louÿs.

Libro – Leggere è dimenticare, è il messaggio che Tim Parks trae dal saggio “Forgetting” dell’olandese Douwe Draaisma – dimenticare è la funzoone principale della memoria, secondo Draaisma, poiché i tanti stimoli che la mente riceve subito dopo li cancella, e pochi riemergono alla memoria. Tanto più allora il libro-oggetto è necessario, un archivio indispensabile.
Parks si rafforza nell’argomento con un citazione di Nabokov: “È curioso, ma non si può leggere un libro: si può solo rileggerlo”. Per il motivo che “quando leggiamo un libro per la prima volta, lo stesso procedimento di muovere laboriosamente gli occhi da sinistra a destra, riga dopo riga, pagina dopo pagina, questo complicato lavoro fisico sul libro, lo stesso procedimento d’imparare in termini di spazio e tempo di che cosa tratta il libro, questo si frappone tra noi e l’apprezzamento artistico”. Solo a una terza o quarta lettura, conclude Parks,  ci mettiamo in rapporto con un libro come con un quadro.  Che, depurato del paradosso, non significa niente.
Nabokov s fa forte di Flaubert: “Come si sarebbe sapienti se solo si conoscessero bene cinque o sei libri”. Ma questa è un’altra cosa – a parte l’ironia. La conoscenza e la saggezza si fanno con la riflessone, andando in profondità,  e il libro è il veicolo migliore, lo scritto, rispetto alla comunicazione orale o visiva.

Sogni – Si diffondono nuovamente come artifici narrativi, ma come scenografia cupa, di morte, di violenza. Camilleri ne fa grande uso. Anche i narratori di violenze, soprattutto sui bambini: il sogno si presta come predestinazione.
Umberto Eco ne ha provato uno nel Sesto Giorno del “Nome della rosa”, l’alter ego Adso si appisola e sogna, ma è lungo e dettagliato e non suggerisce nulla.

letterautore@antiit.eu 

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