Il
pensiero di Heidegger è perfino trasparente, pur nella sua sorniona allusività
- altrove si direbbe mafiosità. Che Derrida, benché appassionato delle
decifrazioni, trascura: la questione è “dei pensieri e degli impensieri” di
Heidegger… Il testo è di una conferenza a Parigi, il 14 marzo 1987, al Collège
International de Philosophie, sul tema: “Heidegger: questioni aperte”.Raddoppiata
a stampa dalle note. Si penserebbe al nazismo, cui l’editore francese rinvia,
riproponendo il saggio-conferenza in contemporanea con la traduzione italiana.
Ma è parola e tema che Derrida virtuosisticamente evita.
Allora.
Di spirito non si parla in “Essere e tempo”, 1927, se non, appunto, tra
virgolette. “E tuttavia, con la parola, seppure tra virgolette, qualcosa dello
spirito, e senza dubbio ciò che fa segno verso il Gemüt, si lascia sottrarre alla metafisica cartesiamo-hegeliana
della soggettività”. Che “Essere e tempo” rifiuta. Sembra chiaro, ma Derrida sorvola.
Anche sul Gemüt, che più che intraducibile è la saracinesca nazionale e esclusiva che si pone a ogni altro (destino,
popolo, etc.), di una soggettività maggiore. Sono le virgolette che eccitano
Derrida. Le virgolette non sono sempre le stesse: “È la legge delle virgolette.
A due a due montano la guardia: alla frontiera o davanti ala porta, preposte al
soglio in ogni caso, e questi luoghi sono sempre drammatici”. Nientedimeno -
però la filosofia delle virgolette mancava.
Se non
che un fatto c’è. Il “Discorso del Rettorato” toglie le virgolette e celebra lo
spirito addirittura in fiamme. Anzi il Geist,
una cosa che “non c’è nella Grecia dei filosofi più che in quella dei Vangeli,
per non dire della sordità romana: il Geist
è fiamma. E questo non si direbbe e dunque non si penserebbe che in tedesco”. Sembrerebbe
che Derida abbia capito e detto tutto, e invece no. Se non è una sottilissima ironia,
la sua è cecità, per quanto arzigogoli. Nell’“Introduzione alla metafisica”,
due anni dopo il “Rettorato”, c’è in Heidegger “una specie di diagnosi geo-politica, di cui
tutte le risorse e tutti i riferimenti tornano allo spirito, alla istorialità
spirituale, con i concetti già analizzati: spirituali
sono la caduta o la decadenza (Verfall), spirituale è anche la forza”.
Capito?
No. Il senso è chiaro, dell’improvvisa discesa dello spirito, ma Derrida a
questo punto devia sull’animalità. Su cui impegna una lunga esposizione
critica. E sempre sulla imagerie
verbale - das Welten von Welt, il farsi mondo del mondo, die Welt ist,
in dem sie weltet, il mondo è in quanto si mondanizza (si mondializza?):
un’ubriacatura (la Umdeutung e la Missdeutung
lo fanno impazzire).
La
“questione” viene in nota, a metà conferenza-saggio, ma per opporre a
Heidegger, al quale si contesta “d’aver partecipato alla persecuzione di Husserl”,
suo estimatore e patrono accademico, lo stesso Husserl. Che in “La crisi dell’umanità
europea e la filosofia” (“testo pronunciato nel 1935, a Vienna!”) esclude dallo “spirito europeo”, nelle sue stesse parole, “gli Eschimesi, o gli Indiani dei
mercatini, e gli Zingari che vagabondano in permanenza in tutta Europa”, lui
“che pure si sapeva «non ariano» lui
stesso”, mentre vi includeva i dominion britannici e gli Usa. Insomma uno scandalo, di uno che non meritava
di essere trattato bene - neanche in precedenza?
La
“questione” storico-politica Heidegger l’aveva peraltro chiaramente detta nei due testi
dello Spirito, maiuscolo e senza virgolette, del 1933 e del 1935, il
“Rettorato” e l’“Introduzione” – benché alla sua maniera; allusiva, iniziatica
(ci si ricorderà un giorno dell’impressione netta che “Essere e tempo” produsse già nel 1927, fuori quindi da ogni polemica razzista, su Hans Jonas: “Non è una filosofia,
ma un affare segreto, pressoché una nuova credenza”: la crisi dello “spirito
europeo” si è prodotta nella prima metà del secolo XIX, per “il collasso
dell’idealismo tedesco”). Comincia qui per Heidegger, nella sintesi di Derrida,
“la vacanza dello spirito, la dissoluzione della forza spirituale, il rifiuto
di ogni domanda originaria sui fondamenti”. E per lo stesso Derrida, che
abbandona per una volta il gusto per la
parola e il tedesco, e assimila la “crisi dello spirito” di Heidegger non
soltanto a quella dell’ebreo Husserl ma
anche a quella del latino Valéry, benché del tutto fuori contesto, cioè alla fine
della guerra nel 1919 – nella stessa esposizione che Derrida ne fa in una lunghissima
nota, Valéry non c’entra nulla, è solo il vezzo citazionista di Derrida, ma
rafforza certo il piedistallo a Heidegger.
La
“questione” è Derrida, e il suo rapporto – suo come di tanti altri, è vero, ma
molti sotto suo influsso – con la filosofia tedesca post-idealistica, della
crisi, della fenomenologia e dell’ontologia. Essendo
personalmente soprattutto appassionato delle parole, e di Heidegger in quanto
mago della parola – a doppio taglio: come poeta in proprio inventivo, e come
furbo svevo-alemanno che dice e non
dice, reticente. Il tedesco di Heidegger è per Derrida una selva
incantata. Se ne potrebbe arguire della filosofia
come possessione – il daimon qui
non c’è, ma c’è molto deinon, nel
senso di pauroso, terribile.
C’è
anche un che di ludicrous in questa
chiaroveggenza distratta di Derrida, assurdo e comico insieme, e forse purtroppo
ridicolo. Se si assume il discorso inaugurale di Hegel a Heidelberg il 28
ottobre 1816, noto a entrambi, Heidegger e Derrida, dalle “Lezioni sulla storia
della filosofia”, che dice la filosofia in Germania erede dell’ebraismo - la
Germania rappresenta come la depositaria finale del ”fuoco sacro” dello spirito,
dice proprio così Hegel, del Geist, compito
che una volta era spettato “alla nazione ebraica”. Le genealogie sono
rischiose, ma se fossero vere? Dei tedeschi non c’è da fidarsi, a lungo hanno voluto
invece essere greci, però…
L’ultima
pagina si legge come una parodia, purtroppo involontaria, dello Heidegger che
profetizza rinascite (recessi temporanei e albe future, marce, destini
incomprimibili, tra Occidente e Oriente - Derrida dimentica che l’Oriente di
Heidegger era ben preciso, solido e minaccioso: la Russia sovietica): “Voi dite
ciò che si può dire di più radicale quando si è cristiani oggi” ed ebrei, Derrida interpella Heidegger: “A
questo punto, soprattutto quando parlate di Dio, di recesso, di fiamma e di
scrittura di fuoco nella promessa del ritorno verso il paese della
pre-archi-originalità, non è sicuro che non riceviate una risposta analoga e
un’eco simile dal mio amico e correligionario, l’ebreo messianico. Non sono
sicuro che il mussulmano e qualcun altro non si unirebbero al concerto e
all’inno”.
Fa senso
rileggere una riflessione su Heidegger appassionata, acuta, pignola, in certo
senso devota, per giunta di un filosofo ebreo, anche se senza kipah, dopo che l’antisemitismo
di Heidegger è diventato manifesto. E - benché si tenti di coprirlo di “storia
dell’essere” - volgare: la cospirazione giudaica mondiale. Non che il nazismo
di Heidegger (nazismo e non nazionalismo - si confondono ad arte, mentre sono
distinti e anche antitetici: Jünger per esempio sta in un altro mondo che Heidegger,
anche se lui ha fatto la guerra per Hitler e Heidegger si è imboscato) non
fosse noto prima, con corteggio di antisemitismo spicciolo (posti accademici, denunce,
radiazioni)… Bisognerà ripensare il
nazismo? Gli anni 1938-1942 la guerra la Germania l’aveva già vinta, senza perdite.
Jacques
Derrida, Dello spirito: Heidegger e la
questione, SE, pp. 142 € 19
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