Testi difficili
oggi da editare. In realtà liberi in rete, ma di cui non si parla: anche
l’irriverenza è regolata. Del libero pensatore Ammirà, garibaldino di lungo corso,
e del sacerdote Domenico Piro, soprannominato Duonnu Pantu, morto giovane. Nella
tradizione, per quest’ultimo, che ha vissuto nella pre-Sila prossima a Cosenza,
ad Aprigliano, tra il 1660 e il 1696, anche dei “blasoni” francesi, le lodi di una
parte del corpo, allora in voga. Sotto l’abito, che sembra sincero, della
deplorazione, contro il “sieculu puttanu”: le lussurie intrecciando con la
nostalgia dell’“età dell’oro”, quando regnava l’innocenza senza peccato.
Ammirà,
scrittore prolifico e prolisso, s’immortala per la “Ceceide”, il poemetto-testamento
della Tropeana, che aveva tenuto banco nella città da cui il soprannome. Piro è
autore oggi non citabile nemmeno per i titoli, una “Cazzeide” in ventuno
ottave, seguita a gran successo da una “Cunneide” un po’ meno diretta e più
argomentata, quarantotto strofe di quattro versi, tre endecasillabi e un
quinario, che chiude col primo verso della strofa. Qui il raffronto è con la
vita semplice, quale lui, a suo dire, conduceva: castagne bollite, un sorso di
vino, un po’ di verdura lessa. Canzoni sapide, non sconce, su un fondo di
tristezza.
Vincenzo
Ammirà e Duonnu Pantu, Canti erotici
calabresi, Non Mollare Edizioni, pp. 80, ril., € 10
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