mercoledì 19 agosto 2015

La lingua del papa

Monsignor Galantino ha scandalizzato i più perché ha parlato come i più. Si vuole che il vescovo parli col naso, untuoso, per formule. Anche il tipo da talk-show. Così come lo si vuole rotondo, roseo, gli occhi vitrei e la mano moscia. Uno che non fuma, non cammina, non va in bicicletta, non ha mai fatto la spesa, non si arrabbia, non impreca, e in cucina non sa usare la moka. È la ricetta volgare di una presunta sacralità.
Gli ultimi papi hanno tentato d’innovare, rispetto alla sacralità di programma ancora di Pio XII e Paolo VI. Il primo fu Giovanni XXIII, che però resta al fondo un diplomatico. Giovanni Paolo II, pur molto politico, e in certa misura anche diplomatico, innovò invece costante, fin alle estreme ultime ore: roccioso e anche roboante, ma con parole sempre significative, dirette. I suoi successori si sono messi sulla stessa traccia, ma con evidente rapida parabola nel rituale.
Papa Ratzinger, che debuttò ilare e anticonformista, sembrava il bambino che scopre l’imperayore nudo (“se posso essere papa anch’io”…), presto immalinconì. Papa Bergoglio, che debuttò col “buonasera!”, e si divertiva agli incontri col papa dimissionario come un giovane col povero caro vecchio, si è presto anche lui inabissato negli occhi bassi, le formule vuote, il sorriso di maniera: sembra l’immagine della stanchezza.  
Forse è il Vaticano, la lotta di potere (intrigo) costane, che li deprime, e li costringe a rifugiarsi nell’indistinto.
O è la condizione sacerdotale, curiosamente sentita come una privazione e non un arricchimento.

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