venerdì 21 agosto 2015

La mafia è delle istituzioni

Un aureo libretto, d’interesse inalterato a vent’anni, dell’allieva di Adorno a Francoforte, specialista da giovane di Frantz Fanon, che ha scelto la Sila, il “piccolo Tibet”, e professato a Cosenza. Che la mafia agisca “sull’immaginario collettivo” no: è una falsa mediazione quella del’opinione pubblica, di giudici cronisti e scrittori di successo. Non c’è e non c’è mai stato un culto della mafia, un senso eroico, un’attrattiva. Ma che “la mafia che attacca lo Stato e divide il paese affonda le sue radici nella vita di ogni giorno”, questo è vero, senza acquiescenza e seminando dolore.
Cose anche elementari, che tuttavia bisogna ridire: la mafia non è una famiglia – e non perché è monosessuale. Anche le donne possono essere mafiose: molte madri, soprattutto, e alcune sorelle. Etc. Ma soprattutto, oggi come vent’anni fa, come sempre da un secolo e mezzo ormai, resta verissimo: “Collusione e inefficienza delle istituzioni, disconferma del testimone: si tratta di scenari che nei decenni sono rimasti sostanzialmente invariati. Quando poi il testimone è femmina, il quadro si arricchisce di un ulteriore elemento: un’indagine accanita – non sui presunti colpevoli ma sulla vita privata della testimone”. Ora c’è semmai di peggio, dopo Riina: la mafia non attacca più lo Stato, e il testimone non si disconferma perché è proprio il mafioso, come confidente e come pentito. 
Renate Siebert, Mafia e quotidianeità

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