Due saggi esilaranti, non fosse per l’astrusità. Anche perché inevitabile viene la proiezione di queste arrampicate sugli specchi sul casanovismo insaziabile del filosofo svevo-alemanno, contadino dai robusti appetiti. Con giubilo per i giochi di parole. In “Geschlecht 1” il prefisso “zer-”, che il neolatino rende con “dis-”: Zerstreuung, Zerstreuheit, Zerstörung, Zersplitterung, Zerspaltung, dispersione, disseminazione, distruzione (resa nell’originale francese con distrazione”), divisione, dissociazione. Una goduria. E lo stesso “Geschlecht”, “questa parola sensibile, critica e nevralgica”, che però non sappiamo cosa vuole dire, tra sesso e un’altra diecina di cose diverse, comprese la stirpe e la razza. Cioè, non sappiamo di che stiamo parlando.
In Heidegger, comunque, qualcosa Derrida intravede: di Geschlecht non ce n’è per un “tacere
transitivo e significante (ha taciuto il sesso)”. E la mostra-mostro, zeichen?
Qui veniamo al saggio del titolo: “In una parola dirò che si tratta della mano,
della mano dell’uomo, del rapporto della mano con la parola e con il pensiero”.
Questa è la premessa, ma non il concetto: la mano c’entra, il proprio
dell’uomo, in quanto mostra-mostro. Partendo dall’incolpevole Hölderlin,
“Mnemosyné”: “Un segno (Zeichen)
siamo noi”. Heidegger avrebbe proposto l’ambivalenza in “Che significa
pensare?”, ma solo nella traduzione di Derrida: “La mano offre e riceve, ma non
soltanto delle cose, perché essa stessa si offre e si riceve nell’altra. La
mano conserva, la mano porta. La mano traccia dei segni, mostra, probabilmente
perché l’uomo è un mostro”. Senza colpa di Heidegger che invece dice: “vermutlich weil der Mensch ein Zeichen ist”,
probabilmente perché l’uomo è un segno. La mano come la vuole Aristotele, che prolunga (articola) il cervello, e il sordomuto- per non dire dei delfini,cui manca solo la mano..
“La mano di Heidegger” riporta Heidegger, attraverso le varie intraducibilità e l’unicità della lingua tedesca, a Fichte. A un nazionalismo “progressista”, dice Derrida. O al “nazionale” avverso al “nazionalismo”, come pretese di distinguere Heidegger nella memoria difensiva del 1945, a quest’ultimo imputando “una ideologia biologista e razzista” che deplora. Derrida concorda: “La condanna del biologismo e del razzismo, come di tutto il discorso ideologico di Rosenberg, ispira numerosi testi di Heidegger”.
“La mano di Heidegger” riporta Heidegger, attraverso le varie intraducibilità e l’unicità della lingua tedesca, a Fichte. A un nazionalismo “progressista”, dice Derrida. O al “nazionale” avverso al “nazionalismo”, come pretese di distinguere Heidegger nella memoria difensiva del 1945, a quest’ultimo imputando “una ideologia biologista e razzista” che deplora. Derrida concorda: “La condanna del biologismo e del razzismo, come di tutto il discorso ideologico di Rosenberg, ispira numerosi testi di Heidegger”.
È
difficile pensare il compassatissimo Heidegger vittima di Heidegger, ma Derrida
ci prova. Sublime è senz’altro l’annotazione che la mano “è strettamente legata
a un trattamento classico della «politica» di Heidegger nel contesto
nazionalsocialista”. Come? Heidegger si giustificava nel dopoguerra che lui era
per il lavoro artigianale, ma avrebbe potuto schierarsi con quella che Derrida
chiama “la produttività tecnica”. Come Fanfani, insomma.
Filosofare
sull’inesistente, perché no? È ottimo esercizio – non è il proprio della
filosofia, compresa quella del
“realista” Ferraris, che venticinque anni fa curava, sempre sull’onda, Derrida,
compreso questo, e Heidegger? E una riflessione induce sull’infatuazione: se la filosofia è una serie di note
a Platone, giusto sarebbe dire Heidegger Filosofo Secondo, come colui che
eclissò il primo. Da ultimo Derrida trova intraducibile
perfino Gedicht, così comune, poema,
poesia, poetica. Perfino Ort – e come
faranno in Alto Adige?. È l’amore,
l’ebbrezza, la voluttà del tedesco che Derrida rincorre, più che una qualsiasi
ermeneutica di Heidegger, di cui fu per mezza vita contemporaneo.
E dire
che Derrida l’aveva sgamato. Malgrado la critica
dell’umanesimo come base della metafisica, Heidegger gli si era rivelato permeato
di un umanesimo tenace, nelle sue forme canoniche: disprezzo dell’animale e di
tutto ciò che non è spirito – e nazionalismo, e totalitarismo. Ma non lo dice. In italiano Derrida si
direbbe “derida” – a lui sarebbe piaciuto, un gioco di parole – e questo è
sperabilmente più vero, che lui al fondo si divertisse, almeno lui.
Jacques
Derrida, La mano di Heidegger
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