La poesia delle parti basse
Cecia, la
“tropeana” che ha fatto godere mezzo Capo Vaticano, fa testamento del suo
strumento. Un poemetto non citabile, e tuttavia non scurrile: sfrontato e anzi
strumento di libertà. Succedeva allora - Ammirà è poeta dell’Ottocento, nato e vissuto a Monteleone, ora Vibo Valentia, per lo
più dialettale (in italiano fu autore, tra l’altro, di una traduzione libera
dell’“Eneide”) – che il sesso fosse metafora di libertà. In lingua no ma in
dialetto sì: un vicino di Ammirà, Vincenzo Padula di Acri, che era pure sacerdote, la pensava allo
stesso modo, senza eccessi. Precedeva entrambi, due secoli prima, Domenico
Piro, passato all’arte come Duonnu Pantu, che anche lui celebrò, come Cecia, la
“Cunneide”, ma anche, più famosa, una “Cazzeide”. Roba non isolata, ma tutta
dimenticata: forse è qui la causa di una letteratura singolarmente inerte, dopo
i primi tre-quattro secoli, nel perbenismo che ha reciso e seccato ogni
fermento di vita vera. Di linguaggio vivo e non da boccuccia atteggiata.
Singolarmente inerte anche l’effimero revival
del canto popolare, peraltro limitato alle canzoni di protesta del primo
Novecento.
Ammirà fu
tardo garibaldino, quando il generale risalì la penisola. Dopo aver assaggiato
le prigioni borboniche per l’attività risorgimentale – ma ufficialmente in
quanto autore di poesie satiriche contrarie al buon costume.
Vincenzo
Ammirà, La Ceceide
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