giovedì 17 settembre 2015

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (258)

Giuseppe Leuzzi

Il porto di Gioia Tauro fa vent’anni. Nessun celebrazione anche se è la maggiore realtà industriale in Calabria e una delle maggiori al Sud. Giusto qualche cronaca di cocaina scoperta nei container – scoperte che sì immaginano a onore dello scalo ma vengono fatte pesare contro. Ha 1.300 dipendenti e fattura circa un miliardo, tra servizi propri e quelli in outsourcing nell’imprenditoria locale. È la realtà più invisa alla stampa nazionale, e anche a molti calabresi. Poi si dice che l’odio-di-sé non c’è.

Solo dodici deputati si sono trovati, su 630, per assistere, tra gli sbadigli, al dibattito in calendario alla Camera sul Sud.  Non era nemmeno di venerdì – la Camera fa week-end lungo, a mezzogiorno di venerdì si spopola.

Maurizio Ferrera lamenta sul “Corriere della sera” che uno studente meridionale su quattro sceglie l’università al Nord. Perché, è un male?
E non era peggio trenta o venti anni fa, quando due su quattro, se non tre, dovevano andare al Nord? Questo Sud è senza respiro.

Mirko Felice Eros Turco,  35 anni ,di Gela, 17 anni di processi e undici di ergastolo, era innocente. Era stato condannato perché accusato da sette pentiti. E  questo era bastato: non si dovrebbe condannare in assenza di riscontri, ma pazienza. Nel 2008 gli assassini veri si sono autoaccusati. Ma ci sono voluti altri sette anni per avere l’assoluzione e la liberazione di Turco.

Il Salento Giuseppe Berto trovava sessant’anni fa “una regione monotona, senza montagne né fiumi né boschi, (che) l’estate inesorabilmente brucia…. Un regione poco propria al turismo, dunque?” Che è ora da un decennio la regione più prospera del Sud e una delle più prospere d’Italia, di seconde case restaurate, molto appetite e ben pagate da mezza Europa, e anche dall’Asia, di spiagge rinomate, di cultura, di musica, di industria compatibile, di vini e olivi, di storia, di arte. I vuoti si possono colmare.

Aspromonte
Una bella foto di una bella tela del pittore naturalista francese Théodore Rousseau, primo Ottocento, “Groupe de Chênes à Apremont”, è presentato da Franco Mosino, filologo classico, su “Calabria Sconosciuta” come “La quercia d’Aspromonte”. Con tanto di pedigree da attribuzionista esperto: “Essa presenta i Piani di Aspromonte… Ed è sicuro che il pittore, per ritrarre dal vero quel paesaggio, venne in Calabria, forse sospinto dalla Canzone di Aspromonte, canzone epica del Medioevo”. Th. Rousseau, pittore ottimo e uomo di buon carattere, non era versato nelle letture. E la quercia non cresce ai Piani di Aspromonte, altopiano dell’Aspromonte occidentale tra i 1000 e i 1.200 metri – anche se potrebbe. La Francia ha alcuni Apremont e Aspremont, e quello di Rousseau è tra le gole della Savoia. Mosino è studioso oculato, solitamente. È anche inventivo: è lo scopritore del vero autore dell’“Odissea”, poema del “mare d’Occidente ignoto ai greci d’Asia”, che si dovrebbe chiamare Appa, giusto l’acrostico da lui individuato tra i primi versi della narrazione, e potrebbe essere stato reggino, per motivi che non staremo a spiegare (Mosino ci ha scritto sopra cinque volumi, con i quali si è candidato al Nobel). Ma è vero che anche chi la abita non conosce la Montagna.

Giovanni Sole arrabbiato ricorda in “L’invenzione del calabrese” l’Accademia Cosentina, “l’istituto culturale più importante della regione”, tra Sei e Settecento. Impegnato nel 1724 a produrre sonetti e stanze “in memoria della contessa Anna Maria d’Althann”. Della quale non dice nulla, mentre era la madre del cardinale Michael Frederich von Althann, che in quegli stessi anni era viceré a Napoli, e si ricorda come uno dei più ambiziosi, se non illuminati. La contessa fu celebrata anche da Vico. Nonché da Metastasio, che aveva dedicato al cardinale il suo primo melodramma.
Non si dice anche che la contessa era nata Aspermont. Della nobile famiglia svizzera che traeva titolo dalla signoria sul Vecchio e Nuovo Aspermont, il primo vicino Trimmis e il secondo sopra Jenins nel distretto vescovile di Coira. Una gentildonna svizzera dunque – il cui nome gentilizio era stato nei secoli raddoppiato in Rhomberg (un Rhomberg creerà nel Texas nel 1889 il villaggio Aspermont).
Un’altra Marianna d’Althann, una Pignatelli nobildonna spagnola, nata a Alcùdia, vedova di suo figlio Michele Venceslao Althmann, aveva da sposata, e manterrà tutta la vita, una relazione con Metastasio, che nel 1721 le aveva già dedicato l’“Endimione” – un anno prima dunque della dedica al Michele cardinale della ”Didone abbandonata”. “In vita della contessa Marianna, Pietro Trapassi detto Metastasio compose i melodrammi più riusciti”, informa la bio su wikipedia: “Dopo la morte della contessa, iniziò la fase calante della produzione metastasiana”.

Verlaine, “Sagesse”, I, 5: “Qualcosa di puro permane sulla montagna, qualcosa del cuore infantile e sottile”. Prosa che incantava Dino Campana, un  altro che stava bene solo in montagna (al mare impazziva, letteralmente), in una delle lettere a Astrid Ahnfelt, 16 ottobre 1916: “Perché, cos’è veramente che ci accompagna, e quando la morte verrà che ne resta?”.

Del suo paese in montagna Corrado Alvaro ricorda “il colore delle ore” e “il sapore dell’acqua” (“L’’uomo nel labirinto”). Oggetto, l’acqua, di una cerimonia quotidiana. “Quello è il padre che dà da bere ai figli prima che si mettano letto”, nota di un padre al balcone di sera con i figli. E aggiunge: “Anche mio padre lo faceva. Noi eravamo cinque. Ci chiamava sul davanzale, beveva lui per primo nell’orcio, poi lo passava a noi, uno per uno. Uno per uno bevevamo. Nel chiarore della sera, prima di chiudere gli occhi nell’atto di bere, scorgevamo i nostri occhi riflessi nell’acqua, l’orcio, sotto il respiro interrotto, risuonava come una conchiglia marina e il fiume pareva che gridasse più forte ai piedi del paese. Ritiravamo la bocca col sospiro mozzato di chi sia stato per affogare”. Il culto dell’acqua persiste sulla “Montagna”, come è d’uso riferirsi all’Aspromonte, in tutti i suoi versanti.
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C’è da Antonio B. in Montagna, nell’orizzonte aperto dell’altopiano, un biancospino. Amato, curato, che non fa mai mancare l’ombra e la brezza lieve. Sotto le cui fronde si sta con Orazio, che spesso vi si rifà. Riposare sotto l’albero, ricevere gli amici, bere un bicchiere, è “la profondità del piacere semplice”,  della “voluttà discreta”, e rileva dell’“immediatezza” del piacere. (Orazio, “Odi”, I, 1, v.21. III, 22).
È anche lo spirito dell’altopiano. Mosino ha in fondo ragione, i piani d’Aspromonte, che sul versante occidentale ne abbonda, piani di Carmelia, piani di Melia, piani d’Aspromonte propriamente detti, piani della Corona, avrebbero potuto ispirare Th. Rousseau. Maurice Barrès mezzo secolo dopo ci ha scritto su un intero libro, “La Colline inspirée”, per esaltare lo spirito dell’altopiano – luogo “che tira l’anima fuori dalla letargia”. È il luogo in cui la terra si accosta al cielo, una ierogamia fisica e una teofania, per effetto degli stessi astri che vi si manifestano lucenti e come puri.  Senza effetti speciali o spettacolari, di una solidità peraltro senza iattanza, che conforta senza pretenderlo. È l’immediatezza della serenità. La Grecia classica se ne esaltava: dappertutto dove ne individuava uno a portata di basto vi erigeva un tempio.

La Fata Morgana sopra l’aeroporto
Scendendo lungo il Tirreno verso Lamezia al’altezza dell’aeroporto internazionale una catena montagnosa si accosta dal mare, via via più vicina man mano che si procede sull’autostrada, dettagliata, anche dapprima bassa, incrostata di case, poi aspra di burroni, che si riconoscono per i Peloritani, i monti sopra Messina. L’autostrada corre lungo il mare, ma il mare più non si vede, chiuso dall’apparizione. Alla stazione di servizio i Peloritani sembrano sempre incombenti, con un che ora di remoto, ma sembra di leggere perfino le scritte sui muri. Il banconista, interpellato dopo un’esitazione, non ne sa niente – è conciliante; “Qui siamo a Lamezia, da quella parte c’è l’aeroporto, è tutto pianeggiante”. Uscendo, in effetti, l’orizzonte è sgombro. In lontananza c’è il monte Poro, sopra Tropea e il Capo Vaticano – il vecchio Promontorium Taurianum. Ci consoliamo dalla sorpresa ipotizzando un effetto di luce, o di diverso orientamento per un breve tratto dell’autostrada, che il Capo Vaticano potrebbe avere riportato al Nord. E invece no, è la Fata Morgana.
Widmann, un viaggiatore svizzero, ha registrato la stessa esperienza in “Calabria 1903”, p. 34: “Mentre il treno continuava la sua corsa, scorsi al’improvviso delle montagne in mezzo al mare. Non poteva trattarsi della costa siciliana, come potevo vedere dalla carta geografica e, d’altra parte, le montagne erano troppo grandi e tropo alte per  essere le isole Lipari. Un viaggiatore mi informò gentilmente che si trattava di un miraggio, un caso di Fata Morgana, molto frequente su questa costa”. Un miraggio in Calabria non fa storia?
Widmann non trova necessario spiegare, nel 1903, cosa si intende per Fata Morgana. Oggi è necessario: “Una forma complessa e insolita di miraggio”, la dice l’enciclopedia, “che si può scorgere all’interno di una stretta fascia al di sopra dell’orizzonte”. Il nome è italiano perché il fenomeno si osserva nello Stretto di Messina – ed è stato magnificato dai Normanni nell’epopea della loro conquista. “Esso fa riferimento”, continua wikipedia, “alla fata Morgana della mitologia celtica, che induceva nei marinai visioni di fantastici castelli in aria o in terra per attirarli e quindi condurli a morte”.
Giuseppe Berto, che scelse il Capo Vaticano per vivere, non se ne meraviglia – in un testo ora raccolto in “Il mare da dove nascono i miti”: ”È un semplice fenomeno di rifrazioni atmosferiche”. Semplice, cioè banale? La costruzione e il dissolvimento di un mondo, in un apparire e sparire. Non è un mito, è un fatto. Ma semplice?

Il Sud è un signorotto
Il Sud si rivelava a Berto a Terracina: “La rivelazione del Sud è improvvisa e totale soltanto dopo che a Terracina ci si affaccia sul Golfo di Gaeta”. Il Sud è il mare. Il mare riporta ordine e armonia in quel paesaggio del Sud “fatto di violenza e di contrasti”.
Il Sud Berto ipostatizzava anche in un uomo seduto sui gradini del monumento ai Caduti di un qualsiasi paese calabrese il giorno in cui il cinema dava un film di Frank Caora e l’altoparlante lo propagandava in piazza: “Era lui il Sud. Lui aveva assorbito in una unica atmosfera chiusa, opprimente, ostinata, le varie civiltà con cui era venuto a contatto. Anche l’ultima, quella dei cinematografi e delle insegne al neon e delle calze nylon”. Che non vuole dire nulla, e non lo dice, se non in modo raffazzonato. Ma sì qualcosa di urtante.
È il secondo articolo che Berto scrive sul Sud, intitolato proprio “Il Sud”, per “Il tempo” nel 1948 (ora in “Il mare dove nascono i miti”). Ma il nodo Berto lo ha subito fiutato. Prosegue infatti: “Qui il medioevo deve ancora passare. Perfino i figli del popolo che si elevano con le professioni o con i commerci hanno l’ambizione di diventare dei signorotti. Esattamente come l’emigrante che torna dopo essere stato vent’anni a New York o a Chicago, e che con i dollari risparmiati si costruisce una casa magari senza impianti igienici, ma con un balcone sulla via principale…”

leuzzi@antiit.eu

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