Un gioiello atteso e deludente della impareggiabile collana “Viaggio in Calabria”. Se non per il personaggio stesso dell’autore, un ventiquattrenne scozzese che, dopo un paio d’anni a Napoli in qualità di precettore, prima di tornarsene in patria decide nel 1828 di vedere la Magna Grecia. Ma senza smettere di fare, lui scozzese, l’iperinglese con la puzza al naso. Tutto vede in termini di “noi e loro” (il racconto è scritto in forma di lettere a un amico). Uno che ha l’assillo dei briganti, ora dopo ora, giorno dopo giorno delle cinque o sei settimane delle sue peregrinazioni. E una volta che li incontra, o presume, fa andare al galoppo il suo mulo, per almeno un’ora, con due cavalieri sul groppone…
Il mulo al galoppo non è male, ma sembra che il giovanotto arda, in segreto, l’incontro. Dal quale peraltro si difende con un ombrello….Un bighellone, che il presunto diario editerà dopo una quarantina danni – sul precedente di Goethe, ma… Parte raccomandato a ogni tappa al locale giudice o sindaco, ma ha soprattutto fretta, non si ferma mai due notti nello stesso posto. Senza dimenticare ogni giorno, a ogni tappa, un riferimento ai suoi amati latini: Orazio, Ovidio, Tibullo, Virgilio, Cicerone, Plauto, Ennio, Giovenale – manca cospicuamente Marziale, ma ci sono Dante, più volte, Teocrito e qualcun altro. Con interlocutori che quasi sempre non sanno nulla di se stessi, molto meno del giovanissimo Ramage, tanto è radicale l’ignoranza, al bordo della stupidità.
Quando l’Austria portò la reazione a Sud
Tre pagine sulla botanica, l’estetica e l’economia del fico non lo riscattano. Un capolavoro se ne potrebbe fare della letteratura di viaggio quando è inutile. Se non per le annotazioni di una cultura storica, oltre che filologica, poi perduta, e per questo sorprendente. La Magna Grecia sbrigativo assesta in otto repubbliche (come non pensarci?): Locri, Caulonia, Squillace, Crotone, Sibari, Eraclea, Mataponto e Taranto. Potente è l’immagine, quasi una istantanea indovinata, della reazione austriaca negli anni 1820, dopo i primi moti liberali, che preludeva a quelli di un paio d’anni dopo: della cecità totale dei regni, quello napoletano compreso. Con uno schiacciamento Trono-Altare impensabile, tanto è osceno. E un catechismo corrotto come la superstizione cui si oppone: malocchio, miracoli, visioni, stregonerie..
Con l’ipotesi notevolissima che l’area grecanica (Bova) sia di immigrazione recente, del ‘400. Come quella albanese, e per lo stesso motivo: la fuga dai turchi. Poiché vi si parla il dialetto greco della Morea. Non è cioè di epoca classica o bizantina, come la fisserà la querelle tra Gerhard Rohlfs (classica) e i linguisti suoi oppositori (bizantina) un secolo fa. Ramage non spiega i legami linguistici. E del resto la Morea, nome veneziano del Peloponneso, è linguisticamente un riferimento impreciso – il dialetto è jonico. Ma era al tempo del viaggio di Ramage l’avamposto della ribellione ai turchi che porterà all’indipendenza.
Craufurd Tait Ramage, Calabria pittoresca e romantica, Rubbettino, pp.230 ril. € 7,90
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