“Una delle tendenze della nostra epoca è di usare la
sofferenza dei bambini”. Con pietà naturalmente, con un eccesso anzi di bontà.
Ma con effetti sconcertanti: “In questa pietà popolare si guadagna in
sensibilità e si perde in visione. Se sentivano meno, altre epoche vedevano di
più, anche se vedevano con l’occhio cieco, profetico, insensibile
dell’accettazione, vale a dire della fede. Ora in assenza di questa fede siamo
mossi dalla tenerezza. Una tenerezza che da tempo, staccata dalla persona di
Cristo, è avvolta nella teoria. Quando la tenerezza è separata dalla
sorgente della tenerezza, la sua logica conseguenza è il terrore. Finisce nei
campi di lavoro forzato e nei fumi delle camere a gas”. Bum! Sconcerto. Orrore
anche. Ma la scrittrice “cattolica” per antonomasia è abrasiva e non recede:
non è mossa dal cinismo ma dalla fede .
Il suo è peraltro lo stesso addebito che dello sterminio la Scuola
di Francoforte faceva in contemporanea, con altre parole, all’illuminismo, alla
ragione risolutrice – la buona morte, la morte degli incapienti, la morte degli
inutili, le tabelle costi\benefici dei dottor Mengele. A un mondo, cioè, che
altri scrittori potrebbero dire della scristianizzazione. Flannery O’Connor non
lo dice, ma lo rappresenta, lo racconta – qui sono raccolti i suoi (pochi)
scritti teorici, lei è soprattutto narratrice di storie, narratrice del Sud
degli Usa, come Faulkner, McCullers, Caldwell, Tennessee Williams.
La riflessione più radicale, irritante ma persistente, è questa.
Nell’introduzione che scrisse a “Il mistero di Mary Ann”. La brutta storia
della bambina brutta e ammalata, che doveva morire nei sei mesi e invece per
dodici anni donò tanta felicità, che le suore che la accudirono raccontano
maldestre, è profetica. Come abbiamo visto. Ma non senza motivo. “La morte è il
tema di tanta letteratura moderna. C’è “Morte a Venezia”, “Morte di un commesso
viaggiatore”, “Morte nel pomeriggio”, “Morte di un uomo”. Quella di Mary Ann
fu la morte di una bambina. Più semplice di ognuna di queste, ma
infinitamente più rivelatrice”. Peggio infatti si fa con i bambini, una forma
di sfruttamento. Nobile: “Ivan Karamazov non può credere finché ci sia un solo bambino
che soffre; l’eroe di Camus non può accettare la divinità di Cristio per via
del massacro degli innocenti”. Ma “in questa pietà popolare si guadagna in
sensibilità e si perde in visione”. Che per Flannery O’Connor è potere
profetico, capacità di rappresentare, di narrare. Non senza un connotato etico:
si fa il bene non curando il bene stesso.
Il bene “pochi l’hanno fissato abbastanza a lungo da accettare il
fatto che anche il suo aspetto è grottesco”. Si preferisce santificarlo, e
questo è un male: “Le forme del male di solito ricevono espressione adeguata.
Le forme del bene devono accontentarsi di un cliché o di una lisciatina”, Della
devitalizzazione. Per questo motivo: “Viviamo in un’epoca che non crede, che è
però spirituale in modo netto e disordinato. Esiste un tipo di uomo moderno che
riconosce lo spirito dentro di sé ma non riconosce un essere al di fuori di sé
che possa adorare come Creatore e Signore; di conseguenza è diventato lui
stesso la sua questione ultima”.
La scrittrice americana morta giovane nel 1964 è tutto l’opposto
della donna di sacrestia, benché essa stessa sempre ammalata, di una forma
degenerativa incurabile. E anzi procede a ogni passo con acume, con l’accetta.
Anche qui dove è tenuta ad argomentare su temi poco suggestivi: “Lo scrittore
regionale”, “Narratore e credente”, “Gli scrittori cattolici”. È diventato lui
stesso il suo problema in particolare lo scrittore, che finisce per rimescolare
temi a programma, non cose e fatti reali, vissuti. Il narratore deve “dar
corpo, creare un mondo dotato di peso e di spessore”. Narrare non è “dire” cose
ma farle “vedere” al lettore, “mostrarle”. Del suo stesso lavoro, a chi gli
obietta che i suoi personaggi parlano più spesso con Dio (veggenti, profeti di
strada, creatori di chiese) che con le persone, e che per questo difficilmente
otterranno l’attenzione dei lettori, risponde semplice: “Sto cercando di
rendere il nuovo romanzo più umano, meno farsesco”.
Il problema del male, soprattutto, è argomentato in modo
sorprendente, quasi indisponente, un po’ in tutti i testi. Flannery O’Connoir è
passata alla storia, e si è voluta, scrittrice “cattolica”. Ma della religione
fa la base per una lettura sorprendente del mondo: troppa bontà, senza Dio,
porta al male. Non si pone il problema della “giustificazione di Dio”, il male
è umano, e insidiosamente buono – saggio, risolutivo.
Di Flannery O’Connor sapevamo tutto, ma questa raccolta porta
ancora delle novità: cinque saggi espunti dall’edizione italiana della raccolta
“Nel territorio del diavolo”, una trentina di lettere non comprese nella
traduzione Einaudi dell’epistolario, “Sola a presidiare la fortezza”, e alcune
recensioni della raccolta “The presence of Grace”, non tradotta. Nella
traduzione spigliata di Elena Buia, autrice del’unica monografia sulla
scrittrice in italiano, e Andrew Rutt. E con una dettagliata introduzione di
Antonio Spadaro, che vanta una lunga frequentazione dei luoghi della scrittrice
– e la sente soprattutto in Nick Cave, e in alcune partiture di Springsteen,
gli U 2, i R.E.M., Tom Waits (lo stesso della “Cività cattolica”, il gesuita di
Messina, e di Tondelli, Carver, della poesia di Karl Rahner e di Woytiła, della
Cyberteologia?).
Una scrittrice tradotta insomma di malavoglia. Più per essere scomoda – indipendente, anticonformista – che per dichiararsi cattolica? Sempre sul filo dell’imprevedibilità, anche se i temi assegnati (sono saggi in forma di interventi a convegni) non sono appetitosi. O’Connor pone problemi perché professa il cattolicesimo. Di cui non c’è tradizione negli Usa e nemmeno in Italia – nell’Europa laica e protestante sì (Mauriac, Green, Claudel, Greene, Waugh…), in Italia no (Papini forse? In effetti anche lui è scrittore scomodo). E questo non per una censura laica, va detto, ma per l'insopportabile bozzettismo (agiografismo, conformismo) dello scrittore che qui si vuole cattolico - che sia conformista (neo realista, impegnata, corretta) anche la scrittura laica non è una scusante. E ha fede catastrofica, molto biblica: fattuale, distruttiva – “l’azione della grazia” volendo introdurre “in un territorio tenuto in gran parte dal diavolo”. Il problema è in realtà del pubblico, se ci può essere uno scrittore religioso per un pubblico non credente – sarebbe sprecato.
Flannery supera l’handicap, com’è noto, con la scrittura fulminante - molti aneddoti di queste prose sono racconti compiuti, anche di poche righe: il vaccaro, la fiera delle vacche, l’oca al Ringraziamento, la bambina Mary Ann, Nathaniel Hawthorne, Rosa Hawthorne sua figlia, convertita e madre Alfonsa. Corrosiva quanto, o forse più di quell’altra grande scrittrice coeva del Sud, e grande malata, Carson McCullers. Ha anche insight miracoloso. Il suo relativismo anticipa e sintetizza il papa teologo Benedetto XVI: “Chi non ha valori assoluti non riesce a fare in modo che il relativo rimanga relativo; lo eleva sempre al rango di assoluto”. O la scuola “a ritroso” che non ti vuole insegnare (“ho dovuto frequentare un liceo «progressista»”), già nei primi anni 1940: “A quella scuola era un continuo «pianificare». Avrebbero preferito metterci l’arsenico nell’acqua piuttosto che farci studiare greco. Non so assolutamente niente di storia. Studiavamo al contrario, iniziando dal giornale di oggi e individuando a ritroso le problematiche”. Da leggere le argomentazioni dell’ateismo, o agnosticismo, o indifferenza, che annacqua la narrazione.
Le suore dell’ordine di Rosa Hawthorne, semplici e forse incolte, le spiegano il suo genere di scrittura: il grottesco. Non glielo rimproverano: “È anche la nostra vocazione”, convengono, di suore che si occupano degli incurabili terminali – chissà cosa avrebbe detto Flannery dell’eugenetica così tanto buona che ci domina.
Una scrittrice tradotta insomma di malavoglia. Più per essere scomoda – indipendente, anticonformista – che per dichiararsi cattolica? Sempre sul filo dell’imprevedibilità, anche se i temi assegnati (sono saggi in forma di interventi a convegni) non sono appetitosi. O’Connor pone problemi perché professa il cattolicesimo. Di cui non c’è tradizione negli Usa e nemmeno in Italia – nell’Europa laica e protestante sì (Mauriac, Green, Claudel, Greene, Waugh…), in Italia no (Papini forse? In effetti anche lui è scrittore scomodo). E questo non per una censura laica, va detto, ma per l'insopportabile bozzettismo (agiografismo, conformismo) dello scrittore che qui si vuole cattolico - che sia conformista (neo realista, impegnata, corretta) anche la scrittura laica non è una scusante. E ha fede catastrofica, molto biblica: fattuale, distruttiva – “l’azione della grazia” volendo introdurre “in un territorio tenuto in gran parte dal diavolo”. Il problema è in realtà del pubblico, se ci può essere uno scrittore religioso per un pubblico non credente – sarebbe sprecato.
Flannery supera l’handicap, com’è noto, con la scrittura fulminante - molti aneddoti di queste prose sono racconti compiuti, anche di poche righe: il vaccaro, la fiera delle vacche, l’oca al Ringraziamento, la bambina Mary Ann, Nathaniel Hawthorne, Rosa Hawthorne sua figlia, convertita e madre Alfonsa. Corrosiva quanto, o forse più di quell’altra grande scrittrice coeva del Sud, e grande malata, Carson McCullers. Ha anche insight miracoloso. Il suo relativismo anticipa e sintetizza il papa teologo Benedetto XVI: “Chi non ha valori assoluti non riesce a fare in modo che il relativo rimanga relativo; lo eleva sempre al rango di assoluto”. O la scuola “a ritroso” che non ti vuole insegnare (“ho dovuto frequentare un liceo «progressista»”), già nei primi anni 1940: “A quella scuola era un continuo «pianificare». Avrebbero preferito metterci l’arsenico nell’acqua piuttosto che farci studiare greco. Non so assolutamente niente di storia. Studiavamo al contrario, iniziando dal giornale di oggi e individuando a ritroso le problematiche”. Da leggere le argomentazioni dell’ateismo, o agnosticismo, o indifferenza, che annacqua la narrazione.
Le suore dell’ordine di Rosa Hawthorne, semplici e forse incolte, le spiegano il suo genere di scrittura: il grottesco. Non glielo rimproverano: “È anche la nostra vocazione”, convengono, di suore che si occupano degli incurabili terminali – chissà cosa avrebbe detto Flannery dell’eugenetica così tanto buona che ci domina.
Flannery O’Connor, Il volto incompiuto, Bur, pp. 173 €
9,50
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