mercoledì 23 settembre 2015

Inquinare è tedesco

Lo scandalo Volkswagen più che altro è incredibile: che si investa su un meccanismo che bara sulle emissioni nocive piuttosto che sulla riduzione delle emissioni stesse. Che lo si faccia negli Usa, il paese con i controlli ambientali più stringenti. Che lo si faccia con un trucco nemmeno difficile da scoprire.
È perché Volkswagen appartiene a una cultura non ambientalista? No, al contrario: in Germania l’industria ecologica è fortissima. Non c’è acqua, di fiumi, di laghi, che non sia costantemente ripulita. E l’inquinamento atmosferico, pur essendo il paese pianeggiante e ricoperto di autostrade, è mediamente inferiore a quello degli altri paesi europei. Non sarebbe una sorpresa se si scoprisse che negli undici milioni di vetture VW omologate artatamente per quanto riguarda gli scarichi non ci sono quelle destinate al mercato tedesco..
No, è che in Germania l’industria è legge. E più grande è più legge è. Anche quella chimica, delle produzioni dannose: additivi, conservanti, coloranti, diserbanti. Anche coi sindacati. Con i socialisti. Con i Verdi.
Parafrasando un detto famoso, coniato negli Usa per la General Motors (ma lì in disuso da almeno mezzo secolo), tutto ciò che è buono per VW è buono per la Germania: una sorta di cartello, nemmeno surrettizio, regge il rapporto tra industria e Stato, in tutte le sue forme. Peter Hartz, che nel 2005 scrisse le leggi, e promosse gli accrodi coni sindacati, per ridurre le retribuzioni e liberalizzare il lavoro, era uno dei direttori Volkswagen.
È così che il governo di Berlino, col socialista Schröder prima, poi con Angela Merkel, si è sempre opposto a Bruxelles ai nuovi vincoli alle emissioni nocive dei segmenti auto medio-alti. Non si è propriamente opposto, la Germania non ne ha bisogno, ma ha sempre posposto il tutto, di rinvio in rinvio, dal 2015 da ultimo al 2017. 

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