lunedì 28 settembre 2015

Senza religione non c'è politica

Marx? Un apocalittico laico, forzatamente destinato al fallimento: Buber lo sapeva già nel 1945, quando l’Europa si divideva in due blocchi, dei quali uno si proclamava scientifico, e ne scrisse profusamente in “Sentieri in utopia”. Il fondamento precisandone in un saggio posteriore di dieci anni, “Profezia e apocalittica”, che questa antologia include. Senza essere lui stesso un profeta: il profeta è uno gracilino, se non malaticcio, e parla per conto di Dio – senza essere apocalittico: Dio vuole che l’uomo venga a lui, attraverso il profeta, in tutta libertà, la profezia è ipotetica e condizionale (“se”).
La politica è marginale nella riflessione di Buber, che però la vede con tagli sorprendenti. Innestandola sulla sua riflessione centrale, del rapporto uomo-Dio, con un Dio naturalmente che va oltre lo Stato. Tedesco e sionista, mistico (chassidico) e specialista delle Scritture, è stato anche sociologo, e in questa veste fine analista politico. Essendo prima di tutto un socialista, utopista, uno di buona volontà. Deluso. “Le esigenze dello spirito e la realtà della storia”, che conformano la sociologia, sua grande passione, vedendo naufragare nella avalutatività di Max Weber: “Nata come la scienza della critica e del progetto, essa è divenuta una scienza della rassegnazione”.
La religione Buber pone a fondamento della politica. Ma non fondamentalista: con “I condottieri biblici” e “I falsi profeti” restringe molto il fuoco sulla religione. C’è una religione nella politica, non c’è una politica della religione. Quando c’è, è la morte della religione – nella teocrazia, etc. La distinzione rispolverando tra la sacralità precapitalistica delle autonomie produttive e associative, quali la “società di società”del Medioevo, un “insieme di autonomie che si compenetrano a vicenda”, e quella atomizzata della destrutturazione capitalistica, recepita e imposta dalla rivoluzione del 1789. Che poi è la distinzione fondamentale di Tönnies, tra società e comunità. Non originale dunque – e non reazionario – ma meglio fondato. Non c’è società senza Stato. Ma lo Stato senza Dio non funziona: nel primo saggio della raccolta, “Tra società e Stato”, tracciando l’idea di Stato da Platone a Hegel, attraverso il Medioevo, Hobbes e Rousseau, e il passaggio da Dio allo Stato, via Hobbes e Hegel, Buber ci trova una solida paternità del totalitarismo a lui contemporaneo.
Il contributo più vivo è “Validità e limiti del principio politico”. Con la sua tesi forse più contestabile: la religione è la garanzia della politica (della buona politica), in quanto le dà una finalità sostanziale in un contesto, non fine a se stesso (potere). La religione Buber intende come l’argine critico all’attività politica. La religione cioè intende come atto positivo, razionale. La tesi supportando con l’esempio di Gandhi. Con un saggio dal sottotiolo “Si può raggiungere il successo politico con l’attività religiosa?” La risposta di Buber è sì, che Gandhi fu un politico (di successo) in quanto era religioso. Una tesi certamente vera, anch’essa tra tante. Che però apre baratri, dopo il khomeinismo e il jihadismo.
Martin Buber, Profezia e politica, Città Nuova, pp. 140 € 11,50

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