mercoledì 16 settembre 2015

Una regione senza storia

Una regione, si legge della Calabria, distrattamente o pure seriamente, violenta, complicata e bella, disperata e appassionata, sfruttata e vera. E nessuno di questi aggettivi è vero – una regione vera? Si capisce che il lavoro per il ricercatore culturale deve’essere arduo.
Cioè: meglio sarebbe riprenderlo dalle radici. Ma questo è già un problema, un altro aspetto del problema. No, il primo problema: dove sono gli studi? E poi non si può partire daccapo: la tradizione, per quanto inventata e opprimente, insiste e deforma qualsiasi sforzo – anche se soltanto in ipotesi.
Sole, studioso di tradizioni popolari, ci prova attaccando proprio questo, il muro dei luoghi comuni. La diffidenza. La malinconia. La collera. L’asocialità. L’ospitalità o la mancanza di ospitalità. Lo snobismo dei poveri - tutti signori, meglio se nobili. E traditori, con Pirro e con Annibale. Giuda era calabrese. Calabresi i boia di Gesù Cristo, quelli che conficcarono i chiodi. In alternativa, calabresi sono tutti quelli dei ricordi di scuola, Oreste, un paio di donne di Ulisse, e fino ai discendenti di Noè dopo il diluvio, a partire da Aschenaz. 
Un campionario interminabile di vanità e pregiudizi, ripetitivi e noiosi, ma di perdurante efficacia, per l’effetto accumulo: moltiplicati, gonfiati, insistiti, particolareggiati per maggiore verità, senza nemmeno preoccuparsi della verosimiglianza. I “caratteri originari” dei popoli sono trattazione impervia: vuole antenne addestrate e sensibili (affinati) utensili di ricerca. Mentre in Calabria si abbandona all’improvvisazione, la retorica, la furbizia. A opera dei viaggiatori e allogeni, e più a opera degli stessi aborigeni - tutto meno che la ricerca, peraltro non faticosa. Di pregiudizi un po’ più fondati altri se ne potrebbero aggiungere che sono sotto gli occhi: l’abusivismo di necessità, il disordine, la sporcizia, la maleducazione, la prepotenza, i debiti (lincapacità di farsi i conti).
Sottotitolo del saggio è “Intellettuali e falsa coscienza”. Una sfida invitante, anche perché rischiosa: Sole ripassa sotto una luce beffarda, insieme con le loro teorie e “invenzioni”, una lunga serie di autori. I viaggiatori dell’Otto e Novecento tende a salvarli, più spesso che non prendendo per buone le loro informazioni, mentre, con non più di un paio di eccezioni, sono essi stessi parte del problema, essendo intellettuali: avulsi, caratteristicamente presuntuosi, e quelli che si avventuravano in Calabria sicuramente con uno o due problemi loro, uomini e donne, giovani e navigati – si andava in Calabria all’avventura, a sfidare gli elementi e anche il destino. Ma la sostanza è l’ignoranza della storia, compresa quella delle mentalità, dei caratteri originari e di ogni altra loro deriva, magari sociologica ma sostenuta, documentata.
La tradizione in Calabria più che un’invenzione è una mancanza – se non per tracce popolari, sparse, contaminate. La tradizione è inventata di un mondo senza storia, e per questo informe, senza personalità – che non può essere, ma sottintende una personalità debole e contestata. Tipica la storia “lombrosiana” del brigantaggio postunitario. Contro cui lo Stato sabaudo impiegò forze straordinarie. Col concorso di laudatores  locali di varia incapacità. Già per quanto concerne i numeri. Si va dal calcolo ufficiale di 5.212 briganti uccisi in combattimento a 700 mila… E lo si fa un fenomeno di neo borbonismo. Mentre la spedizione Borjès, promossa nel 1861 dai Borboni, memori della lunga marcia nel 1799 del cardinale Ruffo di Calabria, non ebbe nessun aiuto dalle popolazioni. Un fenomeno che si voleva terrificante da cui però erano del tutto esenti il reggino e il cosentino tirrenico, due terzi della Calabria. Gli elenchi ufficiali, burocraticamente onesti, contavano poche decine di fuorilegge.
I briganti, relativamente pochi, erano solo malviventi, antesignani della ‘ndrangheta oggi. Con estorsioni, furti, taglieggiamenti, rapimenti di persona, con orecchie e teste mozzate. ‘Ndranghetisti, si puo aggiungere con Sole, erano i briganti anche nei “rapporti con medici, avvocati, giudici e guardie che pagavano profumatamente con i proventi delle grassazioni”. L’unica differenza tra le due criminalità è che fino a tutto l’Ottocento i briganti erano protetti, e anzi comandati, da preti e frati – questa funzione i preti hanno ancora, ma agli ultimi papi e a molti vescovi non piace più. La realtà è difficile districarla sotto la massa di false informazioni. E l’invenzione della tradizione in Calabria questo è, un ammasso di superficialità, anche sciocche. 
Giovanni Sole, L’invenzione del calabrese, Rubbettino, pp. 232 € 15

Nessun commento:

Posta un commento