Ci
fu la “passione del Sud” per tutto l’Ottocento, e il primo Novecento fino alla
guerra. Quando l’imperialismo era solido – l’imperialismo era nordico L’odio
del Sud del secondo Novecento e di questo inizio di millennio nasce dall’insicurezza?
Il Nord non si sente più tanto solido che ha bisogno di scaricare le sue paure al
piano di sotto.
Campania,
Calabria, le due regioni della “dieta mediterranea”, dove Ancel Kays, lo specialista
delle malattie cardiovascolari, mise la dieta a punto, osservando usi e costumi
alimentari locali, contro i problemi cardiaci, hanno il record dei bambini
obesi. Li abboffano di merendine, altro che dieta mediterranea. È l’effetto
dello sviluppo, della nuova ricchezza – oltre che della stupidità,
naturalmente.
L’appiattimento
del Sud
Non ci sarà lo sfruttamento (ma c’è:
lavoro formato a buon mercato, mercato di sbocco captive, impossibilità di accumulo, trasferimento della capacità di
accumulo o risparmio), ma c’è lo schiacciamento del Sud. Nel migliore dei casi
un appiattimento, nell’indistinzione – Napoli e la Sardegna nella stessa nuvola
grigia. Costante, implacabile. Da alcuni decenni acculato alla mafia. In precedenza
allo spreco, l’intervento straordinario. In precedenza a un notabilato inerte,
con briganti e profìttatori. In parte per auto schiacciamento. Il Sud resta
appiattito in parte per pregiudizio, per superficialità, per ignoranza. In
parte per colpa del Sud stesso. Non obiettiva, non tanto, soggettiva: l’autodeprecazione
(odio-di-sé). Ma come riflesso dell’opera implacabile di appiattimento che è
stata da subito una linea di forza dell’unità..
“Per gli italiani del Nord i romani sono
già un po’ arabi”, nota Nico Naldini nel lungo saggio su Pier Paolo Pasolini,
“Al nuovo lettore di Pasolini” - in P.P.Pasolini, “Un paese di temporali e
fulmini”. E per lo stesso Pasolini, che Roma apprezza soprattutto perché può
fare sesso senza fastidi: “Gli Arabi furono più generosi dei contadini
friulani….” E per don Marchetti, il religioso patriota friulano, prima amico
poi avversario di Pasolini, cui rimprovera scarso patriottismo, rovesciandone l’impegno
in versi e in prosa, e nella sua Academiuta friulana: “Un pizzico di Montale,
di Quasimodo, di Sinisgalli? Robaccia che ven
da promontoris (che viene dall’Italia meridionale)”. Che vien dal mare? Non
c’è il terrone, che è un’ingiuria, c’è l’ignoranza e la disattenzione.
Il Sud non è mai stato e non è un’unità.
È mondi diversissimi. La Sardegna non ha nulla in comune col Salento. Neppure con
Napoli, o la Sicilia. E non c’è maggiore estraneità – diversità, accumulo di
linguaggi, psicologie, culture – che fra Napoli e Palermo. Ha mondi anche più
“sviluppati” o progrediti del Nord. Non solo per la scuola idealistica napoletana.
La Sicilia conosceva il liberalismo inglese ben prima di Gladstone. Napoli, la
Sicilia avevano contatti con Parigi, con Londra per via massonica e per tante
altre vie. Niente a che vedere col torpido centro Italia, e con lo stesso
Piemonte. Tomasi di Lampedusa sapeva di letteratura francese e inglese più che
di letteratura italiana. I suoi cugini Piccolo, per quanto isolati e impoveriti,
pure. Perfino Sciascia fu riconosciuto a Parigi prima che a Milano.
.
Il
romanzo della Calabria
Curioso romanzo della Calabria Anna
Banti ha scritto in “Noi credevamo”. Il cui protagonista, Domenico Lopresti, il
nonno proprio della Banti, che di nome anagrafico faceva Lopresti, non è proprio
un patito, o martire, della nostalgia. Una terra “dagli orizzonti sfasciati”,
così la ricorda in tarda, avviando il ciclo dei ricordi. Cos’è l’orizzonte
“sfasciato”? Sicuramente una brutta cosa. Domenico non è nemmeno calabrese, è
di padre siciliano - un oscuro personaggio a metà massone a metà caposetta, che
ha trovato a Pizzo una moglie giovane e l’agiatezza. Ma è “caparbio”, dopo
essere stato di “tenacia avventurosa”, e di poche parole, al punto da fingersi
muto per non doversi spendere con la famiglia, gli amici, i conoscenti. E queste tre cose, la caparbietà, la tenacia,
il mutismo, lo fanno sicuramente calabrese.
Tanto insight è sorprendente. Anna Banti si voleva calabrese, ma lo era solo
per via del nome anagrafico. Nata a Firenze da padre torinese, seppure figlio
del ribollente Domenico, e madre pratese, vi aveva sempre vissuto, sposa, ai
trent’anni, di Roberto Longhi. Era calabrese al modo di Puškin, che si voleva “africano”.
Si penserebbe come un esotismo, nella chiusa Firenze. Invece ci azzecca, in
tutto. Partendo dal carattere generoso, e cioè impulsivo, del nonno, perciò
votato alla sconfitta. E ha scritto un romanzo molto meridionale. Non un
gattopardo, una cosa compiaciuta: un romanzo duro, amaro, delle illusioni
perdute, tradite. Al suo personaggio risponde del resto, in aliquote ridotte, senza
carcere né fughe, lei stessa. Vittima di ciò che ha fatto, per megalomania certo,
ma con generosità. E con acume. A favore di letterati e artisti, con la rivista
“Paragone” e la casa aperta. Come Répaci, il creatore e organizzatore del premio
Viareggio, quando era un vero premio, anch’egli orgogliosamente calabrese. Cosa
che alla Banti viene rimproverato dagli ingrati in aggiunta all’ingratitudine.
Scrittrice tra l’altro di talento, per esempio per questo “Noi credevamo”..
“Della Calabria cosa è rimasto nel mio
cuore?” Si chiede presto Domenico, e si risponde: “Appena qualche nome, qualche
lampo di verde e di sole. Da circa mezzo secolo me ne sono divezzato e non ho
mai coltivato la religione dei ricordi infantili e di adolescente”. Poi, dopo
una pausa: “Ho ancora nel sangue il ribrezzo di quel che potevo diventare
adagiandomi nel mio stato nativo”. Uno non facile, la favola dell’apatia è una
favola. Perduto si dirà dall’“orgoglio” e dallo “spirito polemico: “Il mio
carattere mi porta a trascendere da un ragione iniziale a un torto
sostanziale”. Molto calabrese anche in questo, il cattivo uso della dialettica.
Il “vecchio brigante” di Nicastro, che
solo parlava un dialetto stretto, e morirà subito dopo di debolezza, inaccudito, Domenico distingue nel
penitenziario di Procida (quello di Gladstone), “per una dignità risentita di
tratti e di modi, da guerriero più che da delinquente”. È credente miscredente:
“La storia calabrese brulica di delitti, compiuti da fanatici in nome di un
diritto presunto o tenebroso”. Lirico: “Erano pur belli quei monti lontani,
quelle vallate vaporanti di violetto tenero, quella natura senza storia”. Insofferente:
“Se mi riconosco una patria, essa è piccola, fra due mari, una terra squallida,
consolata da monti selvosi, ove la lingua è scura e dolente, e non la intende
che chi ci è nato” – al termine di una delle tante critiche al’unità come si è
fatta, per la quale lui ha sacrificato la giovinezza e la vita, libertario e
repubblicano, nelle carceri borboniche.
Il suo nostos, il riferimento alla Calabria, è frequente ma non nostalgico
– non ci sono calabresi che ritornano in Calabria, una delle terre di maggiore emigrazione.
È l’amor de lohn, di lontano, dei
trovatori provenzali, inattaccabile e inalterabile, rappreso. “Quando l’ho
lasciata, nel 1862 (metà vita è passata da allora, n.d.r.), sapevo che non ci sarei più vissuto, ma non
ne ho sofferto. Essa è là, il mio amore per lei la contempla da lontano, eterna
e intatta nel passare dei secoli che la sfiorano, indifferenti al suo bene e al suo male: tanti
ne vedrà senza batter ciglio, il privilegio dei disperati”.
Uno spaesamento sofferto già da ragazzo
carbonaro, tornando da Taverna a Pizzo: “Stentavo a orizzontarmi: m’incantavo
sui mandorli selvatici precocemente fioriti, sulle creste dei monti
incredibilmente azzurre, sulle rapide della fiumara ingrossata”. Un amore per
la terra non per la famiglia – contrariamente alla sociologia del familismo: la
famiglia d’origine, fratelli, sorelle, dice “crucciata e avida, ostinata nel rimpianto dei
beni perduti”. A causa sua, del suo impegno patriottico – non senza ragione?
La
mafia della pietà popolare
Processioni se ne fanno dappertutto. Specie
di sera, con i lumi, le luminarie e i fuochi d’artificio. . A Montevergine, santuario
mariano a 1.300 metri di altitudine sotto il monte Partenio, fanno la processione anche i femminiella
(omosessuali, transessuali) napoletani, non in maschera né per gurru, proprio come devozione. Solo in Calabria
danno fastidio. Solo in una diocesi della Calabria. Può anche darsi che siano
riti pagani e vadano rifiutate, ma che bisogno c’è di dirla mafiose? Da parte
del vescovo. Perché, a ulteriori accertamenti, non è stato il maresciallo dei
carabinieri di Oppido Mamertina a infeudare le processioni alla mafia ma il
vescovo Milito. Perché?
Abolire le processioni, e ogni altro
rituale, può anche essere una pratica di sano protestantesimo. “Sono pratiche pagane”,
ha detto il vescovo di Oppido, e “corruttive” – si spende troppo, intendeva. Si
potrebbero abolire insieme con le immagini, perché no? E anche con i santi,
anche questa è una pratica dubbia. Ma bisogna saperlo.
E poi: abolire le processioni per
lasciare ai preti mano libera nel sociale e nel terzo settore? Opera sicuramente
benefica, ma quanta corruzione nel maneggiamento dei tanti, sempre pochi ma
tantissimi, soldi pubblici, per l’assistenza ai bambini, ai ragazzi, ai vecchi,
ai malati cronici, ai drogati, agli immigrati, ai poveri. Altro che processioni
e spese suntuarie. I soldi dei fedeli possono essere mafiosi, e quelli dello
Stato? O si salva solo la chiesa nel tutto è mafia che è il Sud?
Il sensus
fidelium è per la chiesa un locus
theologicus: la pietà popolare è il modo in cui il “popolo”, la gente
comune, esprime nella sua cultura la sua fede. Alla riforma della chiesa il
papa Franecsco chiama a collaborare la religiosità popolare, il “popolo fedele”:
tra i dieci “luoghi teologici” che costituiscono le fonti della fede enumera
nella “Evangelii Gaudium” anche la pietà popolare.
Il papa viene da una
tradizione latinoamericana e argentina di ascolto della pietà popolare, nel
presupposto che il popolo “fiuta” e interpreta il senso del religioso.
leuzzi@antiit.eu
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