Fino a quando
si è giovani? “Tutto dipende da che cosa s’intende per giovinezza”. È “un
passaggio talmente delicato e mutevole da implicare un gran numero di
sfumature”. I romani, si sa, si volevano giovani fino a tarda età. James,
scrivendone ai settanta, fa l’antico romano: “Non siamo mai davvero vecchi, perché
non sappiamo rassegnarci a smettere d’essere giovani: la giovinezza è un’armata
che schiera l’intero battaglione delle facoltà e tutta la freschezza unita a
illusioni e passioni”, etc. etc.
L’anno di
passaggio James lo pone a quel giorno di marzo 1869 in cui sbarcò
definitivamente in Inghilterra. Fece sua l’Europa, di cui in famiglia e negli
studi aveva celebrato il culto. Anche con frequenti viaggi, che però non
ricorda. Un’Europa – in realtà la decisione di lasciare l’imponente famiglia
per vivere da solo - di cui aveva avuto due anticipazioni, in due distinti
pellegrinaggi invernali nella neve del New England: in casa di una gentile signora
che in tempi lontani era stata invitata a colazione in una casa patrizia londinese,
e a colazione da W.H.Howels, uno scrittore dimenticato, che dice “insidioso
ispiratore dei miei pensieri” (più intende, del padre Henry, anche lui,
filosofo e teologo, del fratello William, delal sorela Alice, scrittrice anch’essa),
invitato con Bayard Taylor, il poeta, altro dimenticato, e l’amico Arthur Sedgwick,
circondati dalla “squisita moda veneziana” che l’anfitrione coltivava in
ricordo del suo appena concluso incarico di console a Venezia.
È dallo sbarco
a Liverpool che James si situa negli “anni di mezzo”, come fosse la scoperta dell’Inghilterra.
A partire dal muffin – la proustiana madeleine in anteprima: “imburrato
ricoperto, sempre ingenuamente bagnato con l’acqua bollente del tè”. Un ricordo
di “immensa felicità”, la felicità della
scoperta di sé.
Londra dice
“città poco ospitale e poco accogliente”: “Le idiosincrasie di Londra non sono
mai state semplici insinuazioni; e inizialmente potevano lasciare a bocca
aperta chi veniva da fuori”. Ma è accolto ovunque con affabilità. Di colazioni,
e pranzi, sono piene queste pagine. Con meraviglia sua: tutti gli chiedono
dell’America, perché non ne sanno nulla, e lui neppure. Tutti, cioè gente “del
Temple, dell’Home Office, del Foreign Office, della House of Commons”. Qualche
volta va anche in trattoria, ce n’era una a Piccadlly, dove ritrova “il piccolo
vecchio mondo di Dickens”. È la Londra tardo-vittoriana, che è “essenzialmente
onesta”.
James vi si
aggira chaperonato da Mrs.Greville, “Ronnie” dal nome del marito Ronald, che
il “Daily Mail” celebra come “The Society
Hostess with the moistest”, “signora
imponente, raffinata, molto miope e molto espansiva”. Il genere che preferisce,
Mrs. Greville come Lady Waterford, la marchesa acquarellista pre-raffaellita
(ma queste cose bisogna saperle in proprio), delle “«vecchie» bellezze”.
Il viaggio
doveva continuare “con l’inimitabile Francia e con l’incomparabile Italia”. Ma
l’Italia James trova alla National Gallery, con goduria e sorpresa, tra i
Tiziano e i Veronese.
Scritto
incompiuto (il seguito aveva pure una traccia: “Notes of a Son and a Brother”, sui
rapporti con la notevole famiglia, sotto il titolo di lavorazione di un suo
romanzo, “Gli anni di mezzo”) per morte intervenuta. Ornato, compiaciuto, prolisso.
Per bene. Estremamente autocentrato,
anche quando intrattiene di George Eliot, una ventina di pagine senza dirne
nulla, o di Tennyson, una dozzina. Lo salva il guizzo iniziale di umanità.
Henry James,Autobiografia degli anni di mezzo, Il
Sole 24 Ore, pp. 79 € 0,50
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