Due
“racconti del Sud”. Di vite giovanili sempre. Ma di ritmi lenti. Di aspettative
che sono in realtà illusioni. I due leitmotiv di tutta la sua narrativa: la
giovinezza carica di aspettative che poi falliranno. “Jelly bean” è il pappamolla,
lo sfaccendato che s’immagina cose. Il “Cammello” è il meraviglioso che sempre
s’intreccia con l’ordinario nella fantasia sovraeccitata – qui a New Orleans.
Due
racconti dell’“Età del jazz”, ma malinconici – il jazz di Fitzgerald è il blues. Dialogati, nel modo che Hemingway
medierà, più forse che da Gertrude Stein. Fitzgerald non veniva dal Sud, era
del Minnesota, del New York, del New Jersey. Ma “attraverso mia moglie”, dice
nelle brevi premesse ai racconti quando ne ordinò la raccolta, aveva penetrato
quella realtà – Zelda era dell’Alabama.
Coi
racconti si apre anche la strada alla “gioventù bruciata”. Fitzgerald cominciò
a scriverne dopo il successo istantaneo del suo primo romanzo, “Di qua dal
Paradiso”, per mettere a frutto sulle riviste che pagavano bene la fama
raggiunta. Il “Cammello” dice di avere scritto a New Orleans stessa in quindici
ore, per comprarsi un orologio che aveva visto, a 600 dollari. Che forse non è
vero, ma era già nel personaggio – un autore che vuole essere un personaggio,
come poi sarà per Hemingway e altri. Uno “sputtanamento” secondo Hemingway, che
lo distoglieva dalla cura dei romanzi, a suo parere l’unico terreno su cui un
autore deve impegnarsi – da qui un allontanamento tra i due, ma anche questo
per fare personaggio?
Francis Scott Fitzgerald, Jelly Bean. La parte posteriore
del cammello,
Il Sole 24 Ore, pp. 79 € 0,50
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