Francia-Italia – Non ci sono
due paesi in Europa più legati, per la storia, la geografia, la cultura
politica. Ma la Franca è sempre stata
avventurosamente rapinatrice con l’Italia, fino all’attacco destabilizzatore in
Libia – che non è finito con l’assassinio di Gheddafi. Tanto è pacifica l’identificazione
culturale e temperamentale tra i due popoli, altrettanto indiscutibilmente la
Francia è sempre stata predatrice in Italia e contro l’Italia.
Con l’eccezione dell’aiuto di Napoleone III nella seconda guerra risorgimentale
per l’unità – ma anche quella a un costo, Nizza e la Savoia. I normanni hanno
lascito tracce quando sono passati per matrimonio agli Hohenstaufen. Gli angioini, mai amati, non hanno lasciato alcuna traccia
in Sicilia e a Napoli. In Sicilia, terra adusa alle dominazioni straniere, sono
stati gli unici a essere cacciati, tale era l’esasperazione che avevano
provocato. La storia continua col papato ad Avignone, l’invasione predatoria di
Carlo VIII, senza alcun reale disegno politico, le conquiste di Luigi XII, le ruberie di Napoleone.
Legge
elettorale – Sotto
le polemiche e le distinzioni di pelo caprino, può essere, ed è stata nella
storia della Repubblica, di tre tipi: proporzionale, maggioritaria per
collegio, maggioritaria di lista. Il proporzionale significa la partitocrazia:
si vota per un partito, e gli eletti saranno in proporzione ai voti del partito.
I collegi maggioritari danno la prevalenza al candidato – collegato al partito,
ma in rapporto inverso: il partito di fa forte del successo del candidato. La
legge in vigore, che l’Italicum accentua, reinstaura la partitocrazia del proporzionale,
e in più dà un potere decisivo ai capipartito, che decidono quale dei loro
candidati deve avere le maggiori possibilità di essere eletto (decidono l’ordine
delle preferenze).
Quest’ultimo è il sistema che ha
portato tante belle ragazze, con poca o punta capacità politica e magari senza
nessun titolo culturale, al Parlamento e al governo. Nel presupposto che piaceranno
agli elettori e non disturberanno l
manovratore.
Rommel
– Curiosa
figura di mito germanico, che identifica in lui, erroneamente, l’ideatore e
l’esecutore brillante del Blitzktrieg,
la guerra lampo. Responsabile della prima sconfitta dell’Asse, in Nord Africa,
preludio allo sbanco alleato in Sicilia. E della sconfitta con sbarco in Normandia.
Ma celebrato come un grande condottiero. Anche nella prima guerra mondiale non
aveva brillato.
In Africa, se fu
maestro lo fu del camuffamento. Carri armati costruì di compensato, legò rastrelli
ai camion per fare polvere, schierò in battaglia i mezzi catturati al nemico,
per confonderlo. Un mago illusionista,
nella marina borbonica sarebbe stato il Clausewitz dell’ammuìna. Che così
mostrava agli inglesi dove si trovava: l’esposizione attraverso la
mimetizzazione.
“Voglio prendere
Alessandria”, diceva, “e pure il Cairo”. E fu l’inizio della fine. In questo è
simpatico: il genio del Blitzkrieg che appronta disfatte vorticose per
le armate nazi, si può farne un eroe della Resistenza, una quinta colonna. Si voleva
anzi a Bassora. Nel Golfo Persico, novello Napoleone, davanti a sé vedendo solo
mammalucchi.
Morivano i
tedeschi nell’Africa Korps come mosche nella sua “guerra senza odio”, una buona
metà già nella prima offensiva britannica del 1941, benché il maresciallo ne
favorisse la ritirata sui camion dei fan-i italiani, che si dovettero fare a
piedi Tobruk-Bengasi, duecento chilometri - i camion nelle tante ritirate erano
riservati ai tedeschi, quelli che avevano la benzina, e quando gli italiani
tentavano di aggrapparsi ai cassoni i bezerkir dell’Afrika Korps
andavano al corpo a corpo, a pestare loro le mani. Distrutti nella prima
offensiva anche tutti i carri armati tedeschi, quattrocento, e tutti gli aerei
della Luftwaffe, mille. Così il favorito del Führer, di cui aveva comandato la guardia, divenne la gloria
militare del Reich, e preparò la rincorsa dei britannici fino a Alamein, alle
porte di Alessandria, a duemilacinquecento chilometri dal porto base di Tripoli
- il suo genio gareggiava con quello di Graziani, che per primo aveva puntato
allegro sul Cairo, riuscendo a lasciare agli inglesi centotrentamila
prigionieri, un esercito, con quattrocento carri armati e 1.290 cannoni, mentre
si lamentava con Roma di non avere mezzi sufficienti.
La gloria di
Rommel si fa ascendere a un’azione di guerriglia il 9 novembre 1917, quando, da
solo, prese Longarone e novemila italiani prigionieri. Così la raccontava agli
astuti teutoni e storici britannici. In Italia si appropriò anche del suo unico
titolo di nobiltà: a Longarone, alla tomba della famiglia Molino, pretese di
aver trovato gli antenati della moglie Lucie Maria Mollin, emigrati sette
secoli prima. Ma l’eroico maresciallo disprezzava l’Italia. Si danno questa
certezza i razzisti, che per il fatto di stare a Nord possano guardare il mondo
dall’alto in basso.
Per disprezzo
Rommel non tenne conto delle utili indicazioni che Nasser e Sadat, i nazionalisti
egiziani, gli facevano pervenire sul fronte interno. Ma è vero che la
liberazione dell’Egitto era l’ultima cosa che il generale voleva, anche se gli
avrebbe fatto vincere la guerra. I bersaglieri gli regalarono il cappello
piumato, Rommel non lo indossò mai. Nell’avanzata verso l’oceano Indiano che
finì a Alamein furono gli italiani a prendere il fronte decisivo a Gazala,
aprendo la via alla riconquista di Tobruk. Lui invece, nel mezzo dell’ultima
battaglia se ne andò alle terme in Germania. Abbandonerà il fronte pure prima
dell’ultima battaglia, a Mareth in Tunisia.
Sarà il
comandante tedesco in Nord Italia dopo la caduta del fascismo, e bisognerà al
confronto rivalutare i fascisti di Salò, nell’ottica “ariana” vigliacchi per
essere italiani, che si scannarono feroci col resto d’Italia per difendere il
culo a Hitler. Nei giorni dello sbarco in Normandia Rommel, comandante del
Vallo atlantico che doveva ributtare gli Alleati in mare, se ne andrà a Berlino.
Vinse a Marsa
Matruh, l’unica volta in Africa, perché i britannici scapparono nella
confusione, bombardati dalla stessa Raf. Per un anno il capo guardia di Hitler
fece guerra contro un comando britannico incapace e diviso, è tutta qui la sua
gloria. Si divertiva a correre nel deserto, e per questo divenne famoso, ma
tutti ne sono capaci, nel deserto lo spazio non manca. Nel mezzo della prima
offensiva britannica si lanciò ebbro verso la frontiera egiziana, che non
s’accorse di avere superato. Quando lo capì e tornò in Cirenaica ci trovò i
nemici e dovette evacuarla: dalle tagliole britanniche lo salvarono ancora una
volta i carri dell’Ariete. Ma fu un’eccezione: Rommel si fece forte in Africa
contro avversari singolarmente inetti. I britannici usavano i carri armati come
le squadre di calcio, tutte all’attacco. E ogni squadra faceva la sua guerra, i
carristi non parlavano con gli artiglieri, i carristi e gli artiglieri non
parlavano coi fanti, un corpo d’armata combatteva duramente e si scompaginava,
quello accanto non se ne accorgeva neanche. Montgomery non è migliore?
A molti inglesi
Montgomery non piace. Ma nessun inglese critica Rommel, che deve restare grande
perché Alamein sia vittoria grandissima. È del resto vero, Rommel fu tanto
volpe da rovesciare le sorti della guerra. Doveva essere il Silla della guerra
a Hitler, dice Jünger – nella prefazione 1979 a “Giardini e strade” (l’ha detto pure prima?). Si
capisce che sia fallita. “Era il solo capace di portare sulle spalle”, dice
Jünger, “il terribile bilanciere della guerra e della guerra civile. Il solo
che possedesse abbastanza ingenuità per replicare la spaventosa semplicità di
quelli che doveva attaccare”. Beh, questo è vero. Ma Hitler per primo si voleva
Silla – i tedeschi si vogliono greci e idealizzano il distruttore di Atene.
Senato – La strada è segnata per la sua
abolizione, all’insegne del rinnovamento improcrastinabile, mentre una funzione
sua specifica non è mai stata esplorata che avrebbe potuto essere dirimente
nello Stato contemporaneo, di leggi e regolamenti che si affastellano senza
criterio e anche contro la costituzione e le stese leggi. Una sorta di
ombudsman generalizzato. Così lo proponeva già molti anni fa don Sturzo in un
discorso al Senato dopo che fu nominato senatore a vita a fine 1952: “Garantire
il cittadino contro tutte le sopraffazioni, le ingerenze, le pastoie
legislative che… si vanno introducendo in questo periodo di rinascita di
libertà… È proprio il Senato che l’istituto che dovrebbe ridare fiducia nello
Stato, vigilando sulla pubblica amministrazione, curando l’equilibrio dei poteri
e assicurando al cittadino la garanzia contro lo strapotere degli enti
pubblici”.
astolfo@antiit.eu
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