“Yasmina Khadra” ritorna all’antico. Nella
scena, Algeri, nelle scene, oscene, e
questa volta anche nel linguaggio, che dire da caserma è poco, da vecchio
colonnello dell’esercito algerino, che adottò uno psedunoimo femminile per meglio camuffarsi – grande fatica dev’essere stata per Marina
Di Leo, che lo ha tradotto. Un noir
cupo, tra i segreti turpi della solare Algeri. Un’arringa savonaroliana,
ripetuta, ribattuta, spesso con le stesse parole, contro un paese che l’autore
ha lasciato da tempo per Parigi, e ora denuncia in decomposizione.
L’ennesimo
inno alla bianca Algeri del romanticismo francese attardato, ma ora “bianca
come un passaggio a vuoto”, “una città che si prepara a diventare un cimitero”.
Capitale di un paese “in cui si è fieri di corrompere e di essere corrotti”. Al
centro di una requisitoria costante, inesauribile - i due terzi delle pagine –
e purtroppo saccente. Una città di rivoluzionari arricchiti, di arricchimenti
facili, dentro e attorno al potere. A opera degli stessi che hanno operato
cinquant’anni fa il risorgimento della nazione, o così dicono.
È successo
per il socialismo algerino, in piccolo, quello che è successo in Russia alla caduta
del regime sovietico: che pezzi del vecchio regime si sono impadroniti di tutte
le ricchezze, banche, miniere, giacimenti, commerci, imponendosi con la
collusione reciproca e la violenza criminale. Il vecchio regime era però quello
dei padri della patria, nella guerra vittoriosa contro la Francia colonizzatrice.
Li ritroviamo qui trasformati in rboba,
pescicani. Per i quali la tribù dei Beni Kelbun viene risuscitata, l’appellativo
berbero che usava per i cannibali (“cani”) che attaccavano i pellegrini disarmati
– “geneticamente nefasti, i Beni Kelbun dispongono di una loro trinità: mentono per natura, barano per principio, nuocciono
per vocazione”.
Il
plot è desunto dalle cronache - “un
rajah indù mangiava il curo delle vergini perché non poteva deflorarle”, troppo
vecchio. Ma la requisitoria prevale, contro la “legittimità storica” degli ex
del Fronte di Liberazione Nazionale, gli “zar della Repubblica”: asfissiano il
paese con la violenza e lo hanno corrotto. “Sennò, come spiegare che, malgrado
le sue ricchezze inestimabili, l’Algeria resta povera in sogni e ambizioni, e
arranca in coda alle nazioni?” L’algerino è aggressivo? “Le troppe soperchierie
rendono l’aggressività imperativa”. Quando il magnate dei giornali incontra un
editore di libri con una sua giovane promessa, i tre si bersagliano reciprocamente
per incarnare “il paradosso algerino”:
“Tutt’e tre incarnano non la razza umana ma la specie umana, alla categoria dei
pazzi furiosi incapaci di generosità, mossi dal bisogno malato di nuocere,
talmente tristi che se si venissero a esporre sotto i loro occhi tutti gli splendori
della terra, non vedrebbero che la loro propria bruttezza”. Di cose così è
pieno il libro, di enfasi retorica. Che però resta sufficientemente allucinogeno,
la lettura d’un fiato.
Col
linguaggio da caserma, l’autore franco-algerino usa qui scorrevole, più che in
altri suoi romanzi, la prosa bireligiosa che lo caratterizza. Di un tono di
fondo mussulmano – nella koiné non nelle
pratiche: il profeta non ricorre mai, né Allah né il “Corano”. Con riferimenti cristiani
costanti ai formulari e ai riti, che
sono quelli del francese, della lingua. Di un paese che è mussulmano ma non
arabo, non del tutto, e molto europeo – una piccola Francia, a percentuali
rovesciate.
Yasmina
Khadra, Cosa aspettano le scimmie a
diventare uomini, Sellerio, pp. 309 € 16
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