venerdì 16 ottobre 2015

Il Risorgimento divora i suoi figli, in Algeria

“Yasmina Khadra” ritorna all’antico. Nella scena, Algeri,  nelle scene, oscene, e questa volta anche nel linguaggio, che dire da caserma è poco, da vecchio colonnello dell’esercito algerino, che adottò uno psedunoimo femminile per meglio camuffarsi – grande fatica dev’essere stata per Marina Di Leo, che lo ha tradotto. Un noir cupo, tra i segreti turpi della solare Algeri. Un’arringa savonaroliana, ripetuta, ribattuta, spesso con le stesse parole, contro un paese che l’autore ha lasciato da tempo per Parigi, e ora denuncia in decomposizione.
L’ennesimo inno alla bianca Algeri del romanticismo francese attardato, ma ora “bianca come un passaggio a vuoto”, “una città che si prepara a diventare un cimitero”. Capitale di un paese “in cui si è fieri di corrompere e di essere corrotti”. Al centro di una requisitoria costante, inesauribile - i due terzi delle pagine – e purtroppo saccente. Una città di rivoluzionari arricchiti, di arricchimenti facili, dentro e attorno al potere. A opera degli stessi che hanno operato cinquant’anni fa il risorgimento della nazione, o così dicono.
È successo per il socialismo algerino, in piccolo, quello che è successo in Russia alla caduta del regime sovietico: che pezzi del vecchio regime si sono impadroniti di tutte le ricchezze, banche, miniere, giacimenti, commerci, imponendosi con la collusione reciproca e la violenza criminale. Il vecchio regime era però quello dei padri della patria, nella guerra vittoriosa contro la Francia colonizzatrice. Li ritroviamo qui trasformati in rboba, pescicani. Per i quali la tribù dei Beni Kelbun viene risuscitata, l’appellativo berbero che usava per i cannibali (“cani”) che attaccavano i pellegrini disarmati – “geneticamente nefasti, i Beni Kelbun dispongono di una loro trinità: mentono per natura, barano per principio, nuocciono per vocazione”.
Il plot è desunto dalle cronache - “un rajah indù mangiava il curo delle vergini perché non poteva deflorarle”, troppo vecchio. Ma la requisitoria prevale, contro la “legittimità storica” degli ex del Fronte di Liberazione Nazionale, gli “zar della Repubblica”: asfissiano il paese con la violenza e lo hanno corrotto. “Sennò, come spiegare che, malgrado le sue ricchezze inestimabili, l’Algeria resta povera in sogni e ambizioni, e arranca in coda alle nazioni?” L’algerino è aggressivo? “Le troppe soperchierie rendono l’aggressività imperativa”. Quando il magnate dei giornali incontra un editore di libri con una sua giovane promessa, i tre si bersagliano reciprocamente per incarnare “il paradosso algerino”: “Tutt’e tre incarnano non la razza umana ma la specie umana, alla categoria dei pazzi furiosi incapaci di generosità, mossi dal bisogno malato di nuocere, talmente tristi che se si venissero a esporre sotto i loro occhi tutti gli splendori della terra, non vedrebbero che la loro propria bruttezza”. Di cose così è pieno il libro, di enfasi retorica. Che però resta sufficientemente allucinogeno, la lettura d’un fiato.
Col linguaggio da caserma, l’autore franco-algerino usa qui scorrevole, più che in altri suoi romanzi, la prosa bireligiosa che lo caratterizza. Di un tono di fondo mussulmano – nella koiné non nelle pratiche: il profeta non ricorre mai, né Allah né il “Corano”. Con riferimenti cristiani costanti  ai formulari e ai riti, che sono quelli del francese, della lingua. Di un paese che è mussulmano ma non arabo, non del tutto, e molto europeo – una piccola Francia, a percentuali rovesciate.   
Yasmina Khadra, Cosa aspettano le scimmie a diventare uomini, Sellerio, pp. 309 € 16

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