“L’analisi
del documento etnografico ha messo in evidenza, nelle campagne del sud, la
sopravvivenza dell’antica fascinazione stregonesca, in connessione con altri
stati magici affini, quali la possessione e l’esorcismo, la fattura e la contro
fattura”. È l’epilogo che Ernesto De Martino appone ai tre saggi della
raccolta, “Magia lucana”, “Magia, cattolicesimo e alta cultura”, all’interno
del quale c’è posto per un “Regno di Napoli e jettatura”, e l’appendice
“Intorno al tarantolismo pugliese”. Lucania, Puglia, dovrebbe trattarsi del Sud
d’Italia. Che però è al contrario senza fascinazione, tanto meno antica, poiché
è senza tradizioni e anzi senza radici.
Si
riedita superbamente, per i cinquant’anni della morte di Ernesto De Martino,
la sua opera più famosa – in parallelo con l’edizione economica Feltrinelli, che Galimberti introduce, qui già censita. Con
introduzione sfarzosa a due voci, di Fabio Dei e Antonio Fanelli. E una fittissima
serie di materiali preparatori. Come di una fucina ancora viva: “un contributo - modernissimo, addirittura precorritore
- alla comprensione profonda dei modi e dei riti della cultura popolare che
portano al riscatto dalla «crisi della presenza» in contesti di forte e
perturbata criticità”. Mentre è la più caduca.
Il Sud
incatenato ai resti, si è detto, a persistenze inerti. Già all’epoca, 1958. Una
lettura divertente, non fosse per la seriosità cui l’illustre storico delle
religioni ambisce. Nel quadro della “non storia del Sud” – nel mentre che
Pontieri, Placanica, Rosario Villari, Galasso la rinnovavano. Tutte cose
remote, un po’ assurde anche per l’epoca. Senza contare che della “taranta”
avevano detto molto di più, e comunque meglio, il Castiglione nei preliminari
del “Cortegiano” e Leopardi in vari passi dello “Zibaldone”.
De Martino ne ha il sospetto, che nell’introduzione dice il
confine labile tra “magia” e “razionalità”. E del “materiale relativo alla
«magia lucana»”: “In generale il folklore religioso come coacervo di relitti
disgregati che l’analisi etnografica astrae dal plesso vivente di una
determinata società non è, nel suo isolamento, storicizzabile” –
nell’isolamento cioè in cui la mette lo studioso. Ma la fascinazione non
traccia negli stati psichici, che sono il suo luogo, anche morbosi.
Privilegiando invece come modi interpretativi l’esorcismo, la religione
(diavoleria), la superstizione, e come luogo fisico il Sud. Mentre il
formulario della fascinazione che censisce non ha nulla di esoterico o
cabbalistico: sono filastrocche, in italiano dialettizzato, quindi recenziori e
imitative.
La jettatura De Martino nobilita con scritti “curiosi” tardosettecenteschi
– che Dumas si approprierà nel “Corricolo”, il romando napoletano del 1840 –
dicendoli di elevata qualità illuministica, insomma filosofica. Tali da
comportare “la trasformazione della fascinazione”, dapprima a Napoli, e poi “da
Napoli nel resto d’Europa”. Dove?
Per la “non storia” De Martino si appoggia a Croce. Che la storia
del regno di Napoli diceva “ingrata”, ma è uno che si è divertito a rifarla in
molteplici aspetti, compresi i teatri.
Un’opera
buona cattiva?
Ernesto
De Martino, Sud e Magia, Donzelli,
pp. LI-414, ill., € 34
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