Fra le tante
opere che si rieditano sulla Grande Guerra quella insieme più dettagliata –
oggettiva – e più personale. Il ventiduenne
Gadda fa l’ingegneria della guerra, minuzioso rilevatore di coordinate e
curve di livello, schieramenti, linee di rifornimento, linee di ritirata, e
insieme è già “Gaddus”, tra entusiasmi e malinconie, arguto esploratore dei
dialetti in trincea, e poi del tedesco quando sarà prigioniero in Germania,
acuto indagatore dei caratteri, per una sorta di fascino che esercitano su di
lui, “animo sensibile”: i taccuini di guerra dispone graficamente come un
romanzo, come un teatro. Scrive anche in forma gaddiana, per cose e immagini,
limitando la mano d’autore.
È un libro dunque
già d’autore, ma è anche quello che si voleva: un curioso documento delle
strategie e tattiche della guerra. Viste dal basso e in orizzonte limitato, alla
compagnia di Alpini di cui il sottotenente Gadda era capo plotone, al più al
reggimento, e tuttavia, a cose fatte, perspicace, molto. La sua guerra è anche
un altro game rispetto a quella, per
esempio, di un altro scrittore che ne fu definitivamente segnato, Ernst Jünger.
Nessun eroismo in Gadda, e nessuna filosofia della guerra nella modernità, il
suo occhio è ancora ottocentesco e romantico, dell’italianità, la patria, l’onore,
l’umanità dolente. E tuttavia per questo più “contemporanea” – o eterna.
Il “Taccuino di
Caporetto”, di cui forse si vergognava e che consegnò a Alessandro Bonsanti
perché non lo pubblicasse in vita, è anche un unicum nell’opera di Gadda, che
per lunghi mesi non sa sorridere, neppure irridere. Copre il periodo dal 5 ottobre
1917 al 30 aprile 1918. Gadda soffre in prima persona la guerra. Nell’entusiasmo
prima, nella depressione poi, lenta, lunga, nei campi di prigionia di Rastatt,
nella fredda e spoglia fortezza di Federico, fu prigioniero subito, poche ore
dopo la disfatta del 24 ottobre 2014, e poi nel campo appositamente creato a
Celle nell’Hannover, fino alla notizia della vittoria.
Dopo la vergogna, della sconfitta, della resa,
della prigionia umiliante, la fame è il tema del diario, degradante e sovrastante.
Sempre a rovistare senza vergogna tra i rifiuti della cucina, in cerca dei “torzeletti”
e le foglie scartate dell’insalata. Il giorno di Natale si sfama con “un
torsolo di cavolo e una mezza patata dal mucchio delle immondizie”. Accetterà l’odiato
incarico di supervisore delle cucine, che lo mette in urto a ogni pasto con diecine
delle centinaia di prigionieri in fila, per potersi infine rifare della fame di
mesi. L’altro tema, che lo accompagnerà tutta la vita, è il compianto di sé.
Forse ipocondriaco forse no. Il senso di colpa è fortissimo. A metà del diario
interpola un memoriale circostanziato, “narrazione per uso personale,
scrupolosamente veridica”, in 33 capitoli e una lunga nota, sulla battaglia
dell’Isonzo (Caporetto) e la sua cattura, “in caso di accuse”. A ventiquattro
anni, già sul treno tedesco, e poi a Rastatt e Celle, non finisce di dirsi finito. Per la patria
sconfitta, ma più per il personale destino. A volte anche emozionante, se non
commovente. Finito dopo una vita “che fu
sempre così ricca di dolori, e di disinganni, così povera di fortuna”. Con una
pagina acuta e scoperta di autoanalisi - “come tramutarmi in uomo?”: la
sensibilità “eccessiva”, la timidezza, la scarsa “forza di volontà”, o scarsa applicazione,
eccetto che per lo studio al Politecnico e le amate letture. Ripetutamente
imputandosi “scarsa salute” e ogni sorta di malanno. Ma sapendo che molti
malanni sono “pianto dell’anima, Herzleid,
mal di cuore”.
Carlo Emilio
Gadda, Giornale di guerra e di
prigionia. Con il “Diario di Caporetto,
Garzanti, pp. 444 € 16,50
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