sabato 17 ottobre 2015

Il teatro di guerra di Gadda

Fra le tante opere che si rieditano sulla Grande Guerra quella insieme più dettagliata – oggettiva – e più personale. Il ventiduenne  Gadda fa l’ingegneria della guerra, minuzioso rilevatore di coordinate e curve di livello, schieramenti, linee di rifornimento, linee di ritirata, e insieme è già “Gaddus”, tra entusiasmi e malinconie, arguto esploratore dei dialetti in trincea, e poi del tedesco quando sarà prigioniero in Germania, acuto indagatore dei caratteri, per una sorta di fascino che esercitano su di lui, “animo sensibile”: i taccuini di guerra dispone graficamente come un romanzo, come un teatro. Scrive anche in forma gaddiana, per cose e immagini, limitando la mano d’autore.
È un libro dunque già d’autore, ma è anche quello che si voleva: un curioso documento delle strategie e tattiche della guerra. Viste dal basso e in orizzonte limitato, alla compagnia di Alpini di cui il sottotenente Gadda era capo plotone, al più al reggimento, e tuttavia, a cose fatte, perspicace, molto. La sua guerra è anche un altro game rispetto a quella, per esempio, di un altro scrittore che ne fu definitivamente segnato, Ernst Jünger. Nessun eroismo in Gadda, e nessuna filosofia della guerra nella modernità, il suo occhio è ancora ottocentesco e romantico, dell’italianità, la patria, l’onore, l’umanità dolente. E tuttavia per questo più “contemporanea” – o eterna.
Il “Taccuino di Caporetto”, di cui forse si vergognava e che consegnò a Alessandro Bonsanti perché non lo pubblicasse in vita, è anche un unicum nell’opera di Gadda, che per lunghi mesi non sa sorridere, neppure irridere. Copre il periodo dal 5 ottobre 1917 al 30 aprile 1918. Gadda soffre in prima persona la guerra. Nell’entusiasmo prima, nella depressione poi, lenta, lunga, nei campi di prigionia di Rastatt, nella fredda e spoglia fortezza di Federico, fu prigioniero subito, poche ore dopo la disfatta del 24 ottobre 2014, e poi nel campo appositamente creato a Celle nell’Hannover, fino alla notizia della vittoria.
Dopo la vergogna, della sconfitta, della resa, della prigionia umiliante, la fame è il tema del diario, degradante e sovrastante. Sempre a rovistare senza vergogna tra i rifiuti della cucina, in cerca dei “torzeletti” e le foglie scartate dell’insalata. Il giorno di Natale si sfama con “un torsolo di cavolo e una mezza patata dal mucchio delle immondizie”. Accetterà l’odiato incarico di supervisore delle cucine, che lo mette in urto a ogni pasto con diecine delle centinaia di prigionieri in fila, per potersi infine rifare della fame di mesi. L’altro tema, che lo accompagnerà tutta la vita, è il compianto di sé. Forse ipocondriaco forse no. Il senso di colpa è fortissimo. A metà del diario interpola un memoriale circostanziato, “narrazione per uso personale, scrupolosamente veridica”, in 33 capitoli e una lunga nota, sulla battaglia dell’Isonzo (Caporetto) e la sua cattura, “in caso di accuse”. A ventiquattro anni, già sul treno tedesco, e poi a Rastatt e  Celle, non finisce di dirsi finito. Per la patria sconfitta, ma più per il personale destino. A volte anche emozionante, se non commovente.  Finito dopo una vita “che fu sempre così ricca di dolori, e di disinganni, così povera di fortuna”. Con una pagina acuta e scoperta di autoanalisi - “come tramutarmi in uomo?”: la sensibilità “eccessiva”, la timidezza, la scarsa “forza di volontà”, o scarsa applicazione, eccetto che per lo studio al Politecnico e le amate letture. Ripetutamente imputandosi “scarsa salute” e ogni sorta di malanno. Ma sapendo che molti malanni sono “pianto dell’anima, Herzleid, mal di cuore”.
Carlo Emilio Gadda, Giornale di guerra e di prigionia. Con il “Diario di Caporetto, Garzanti, pp. 444 € 16,50

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