Un
uomo che si chiude nella “volontaria ottusità”, per salvarsi dalla “nera
disperazione”. Un romanzo claustrofobico, giorno dopo giorno per lunghi anni,
nelle prigioni dei Borbone di Napoli: Procida, la galera che commosse Gladstone,
Montefusco, il “bagno eccezionale”
tra i monti dell’Irpinia, chiuso da tempo perché invivibile e “riaperto per
loro”, Montesarchio, San Francesco a Napoli. Tallonato da spie – il
mestiere ora passato nelle carceri alle intercettazioni ambientali. Loro
essendo il narratore, Domenico Lopresti, il proprio nonno paterno di Anna
Banti, con tanti personaggi di maggior rilievo nella storia nazionale: Carlo
Poerio, Sigismondo Castromediano, duca di Cavallino, il barone Nicola Nisco,
Michele Pironti. Le “notabilità pericolose”, che il re Borbone temeva e volle
all’ergastolo. Che avranno i loro ideali, costati il sacrificio della vita,
traditi quando si realizzano.
L’unità
d’Italia fu anche il cimitero di molte energie e illusioni, e Anna Banti ne
aveva fatto qui una durissima rappresentazione, cinquant’anni fa, a ridosso
delle celebrazione dei cent’anni. Il romanzo non fu letto nella giusta maniera
– la sola lettura di qualche impegno, di Enzo Siciliano, che qui si ristampa a
postfazione, è fuori tema. Si liquidò come una memoria familiare, imputata a
ennesima colpa di una scrittrice che, sebbene generosa e pronuba di molti
giovani scrittori, con “Paragone” e le tante sue attività, non era amata - per
fatti caratteriali, e perché moglie fortunata di Roberto Longhi, quindi oggetto
d’invidia. Si riedita dopo la rilettura di Martone, che ne ha fatto un film di
successo. È un romanzo fortemente storico. Documentato. Circostanziato. Da
annali di storia, benché compilativa, talmente è al punto. E come
romanzo.
Il
vecchio Lopresti “caparbio”, di “tenacia avventurosa”, sempre di poche parole,
alla fine si vuole muto. Per un processo di delusione che si aggrava con gli
anni: “Il mio tempo ripete quello del carcere, che sta e fugge”. Il medico di
casa si ostina a curarlo, ma lui ha deciso di non parlare. Ha scelto di vivere
la vecchiaia a Torino, che non ama e non lo ama - “ci disprezzano perché siamo
meridionali”, lamenta l’amata figlia. Ha voluto pagare un omaggio alla moglie
Marietta, torinese, che ha sposato in un tardo matrimonio e gli è sempre stata
amorevole compagna in una vita di pochi agi. Sistemato dai vecchi compagni
rivoluzionari di maggior successo dopo
l’unità in un modesto impiego alle dogane. Nel mutismo, di nascosto,
rivede la sua vita di ribelle e ergastolano.
Un
esperimento e un esito unici. Il carcere non fa genere, ma niente gli sta al
paragone: disincantato, cupo, cattivo anche. “Le mie prigioni” di Pellico sono
confortanti al confronto. Sofri, che ha tentato un approccio sulla stessa
falsariga, è rimasto abbondantemente al di qua della compattezza ostile,
“altra”, diversa e negativa, di questo universo concentrazionario. Che il
visionario riduce a realpolitiker,
quasi un contabile: Gladstone che visita Procida, il suo carcere, e dichiara
Napoli “negazione di Dio” riesce intollerabile all’ergastolano Domenico, e uno che “a casa sua tollerava carceri immonde
contro i morosi e contro i debitori falliti”, solo voleva la Sicilia.
Altre
trame si intrecciano a quella carceraria È il romanzo anche del Nord e il Sud,
ben prima della Lega. Ben più approfondito: l’alterità è di linguaggio e di
senso – di “valori”. Della politica buona e di quella cattiva, dell’avidità,
degli interessi. Anche nell’universo ristretto del carcere: chi ha fatto
domanda di grazia, attraverso quali vie, con qual agganci? Del sospetto
perenne, e del tradimento. Dei ricchi e colti e dei poveri ignoranti – come
fare a portare l’Italia e la repubblica ai pastori, ai braccianti,
inarticolati, instupiditi?
È
un romanzo anche “meridionale”, della borghesia meridionale. Il detto del non
detto. La vecchia serva che è sorella di latte del padrone di casa. Mentre in
carcere si perpetua “il costume delle case signorili del meridione, dove il
servo è nutrito con abbondanza ma di cibi grossolani non pensa ad
offendersene”. Il rapporto personale che supera ogni ideologia e ogni divisione
politica..Mentre la famiglia più spesso non c’è, contrariamente allo
stereotipo: è divisa, è trascurata, è risentita. Sottili e robusti soni i dati
caratteriali: dello stesso Lopresti, vecchio rancoroso invece che buon padre di
famiglia, dei nobili “impegnati”, degli intellettuali, dei mediatori politici,
della piccola borghesia delle apparenze, del contadino contegnoso e integro,
anche se carcerato, d’intelligenza immediata. Degli stessi pastori, che forse “si
fingevano ebeti e pigri”, essendo nei fatti “fidati, precisi, abilissimi nel
dissimulare fra i loro cenci i messaggi”. Un’altra Italia, un altro Sud. Un
romanzo inatteso.
Una
liberazione romanzesca e due bellissime storie di donne che lo corredano alla
fine non riempiono ma allargano il vuoto di una vita. Nel confuso peregrinare incontro
a Garibaldi, l’inciampo con uno scheletro sepolto in poca terra e disseppellito
dagli elementi lo induce a un primo severo distacco: l’impresa dei Mille gli
appare “arbitraria e cieca”. Il ricordo del momento è annichilante: “Una
mostruosa apatia mi schiacciò”. Come di “un superstite al cataclisma”, che
vuole dimenticare. Oppure no, non vuole dimenticare: “Ma la mia sete era
un’altra, sete di una verità che mi sfuggiva dopo avermi bruciato e distrutto”.
Un presentimento che l’unità convalida a dismisura. Coi plebisciti organizzati,
il Sud confidato a Cialdini e Lamarmora, militari stolidi, Garibaldi deluso e
deriso. Domenico seguirà Garibaldi nel calvario finito in Aspromonte, e per
questo tornerà in carcere, sotto Cialdini. Ma a questo punto non ha più nulla
da perdere – la sua consolazione è che “si muore una volta sola”.
È
un romanzo importate più che ambizioso. Il passo ottocentesco della scrittura,
che Siciliano rimprovera all’autrice (Pasolini le rimproverava una “rigidezza madreperlacea”), segue il passo ottocentesco del
ripensamento: faticoso, ostruito da tanti ricordi, eventi, entusiasmi, e
tuttavia incancellabile. Per un senso di colpa non personale, che fa per questo
però più angoscioso il fallimento. E poi è una scrittura che recupera quella di
Nievo, il tentativo più riuscito nel secondo Ottocento di liberarsi del
compassato Manzoni.Anna Banti, Noi credevamo, Oscar, pp. 349 € 9,50
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