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martedì 13 ottobre 2015

Letture - 231

letterautore

Firenze - “Città illustre, divisa fra un’agitazione fittizia e un costume gretto", Anna Banti la fa dire dal protagonista del romanzo “Noi credevamo”. Lo avrebbe potuto dire lei. Animatrice culturale di prim’ordine, scrittrice di notevole forza, e tuttavia dimenticata. Nata a Firenze, sposata a Longhi, dopo esserne stata collaboratrice, animatrice di quel che di vivo era rimasto in città di letteratura dopo la guerra, ma isolata. Isolatissima e presto dimenticata. Un isolamento che risentiva in vita, non personale probabilmente ma funzionale (la cultura). Al punto da dichiararsi, lei nata e vissuta a Firenze, da madre pratese e padre torinese, “calabrese” – giusto perché un nonno era nato in Calabria, dove non era mai tornato. Cioè estranea.

Magia – Ritorna, alla “fine” della tecnica? Della tecnica estremizzata, allo spasimo, ma senza effetti per la conoscenza, e deleteri per la sensibilità. Si celebra con dovizia Della Porta, per i cinquecento anni della morte come se fosse un Galileo misconosciuto – non il Della Porta architetto, l’alchimista e mago, che si dilettava secretorum naturae. Campanella ritorna per il solo aspetto esoterico. Nuccio Ordine pubblica uno studio approfondito di “miti, emblemi, spie”, attorno a Enrico III, re di Francia e di Polonia, con segreti legami oltre Manica, nel dibattito dell’epoca, anche sotterraneo, su re (stregone) e religione, sulla natura, e sulla natura della conoscenza. Marc Fumaroli, che glielo presenta, ne parla come di un prolungamento della stagione warburghiana delle mitografie: dei poteri delle immagini, delle potenze angeliche, degli effluvi magici - Giordano Bruno collegando a Turing, il matematico.

Manzoni – Singolare celebrazione del “Sole 24 Ore” e del “Corriere della sera” alla riapertura al pubblico della casa milanese in via Morone. Quattro pagine, otto articoli delle migliori firme, e niente, solo rigaggio. Possibile che Manzoni non abbia più nulla di dire? O è Milano che non sa più che dirgli? Se ne gloria, ma come di una pietra diruta.

Pasolini - Il “Narciso ferito” lo dice Nico Naldini ricordando la notte quando lo accompagnò alla stazione di Casarsa, alla fuga, con la madre, per Roma. Partirono perché la sera Pier Paolo aveva preso a pugni il padre Carlo Alberto, rientrato a casa ubriaco e manesco, come spesso da ultimo gli capitava. Dopo otto anni di guerra e prigionia, Carlo Alberto era tornato attivo, specialmente fiero del suo figlio superstite, malgrado i pettegolezzi e gli scandali. Ma, rìfiutato dalla sposa Susanna, nell’ambiente chiuso di un paese non suo, si era ingaglioffito – la zia Susanna, sorella della madre, Naldini ricorda sempre allo specchio, in interminabili toilettes, anche nello sfollamento a Versuta nel 1944-45, nella piccola stanza d’affitto che condivideva col figlio ventiduenne prediletto.
Nel 1949, l’anno dello scandalo e del primo processo, Naldini ricorda che il cugino aveva una fidanzatina a San Vito. Al processo fu condannato localmente, ma poi assolto in appello e in Cassazione.

Fu l’unica “scoperta” di Contini. Il filologo emerito, così tanto disponibile, non ne fece altre. Grandezza di Pasolini poeta friulano? Caso? Destino?

È il recordman dei processi prima di Berlusconi – o forse il recordman in assoluto: almeno una cinquantina di procedimenti si elencano a suo carico, molti per i film. Con alcune condanne pecuniarie ma mai un giorno di prigione.
L’accostamento a Berlusconi non è blasfemo come sembra: è l’indice di una correità del sistema giudiziario, si voglia di destra oppure di sinistra.
L’avvocato Francesco Carnelutti, che lo difese in alcuni processi “cinematografici” dei primi anni 1960, e lo faceva assolvere, milanese principe del foro, ottantenne, democristiano professo, veniva indicato dai cronisti giudiziari (il “complesso giornalistico-giudiziario”) come l’amante di Pasolini. Tutto si poteva dire anche allora.

Nella difesa di “Accattone”, contro un avvocato lucano in cerca di pubblicità alle elezioni, che per questo lo aveva denunciato dicendosi offeso da un personaggio malavitoso del film chiamato col suo cognome, Pasolini spiega che “Accattone” è un film “religioso”. Tra virgolette, dice: “Io, che sono marxista, sarei sciocco se non ammettessi che le masse sottoproletarie sono ancora succubi di tale fede, e che la loro vitalità è una forma, tutto sommato, di religiosità”. Cioè inspiegabile. Ma in un senso che è in realtà religioso. Di  una “fede atroce, pagana, barocca, corrotta”, e tuttavia: “Credente è Stella, e credente è Accattone: due sottoproletari e, peggio, due relitti…. La fede di tutti e due è ingenua, superstiziosa e quasi sacrilega: ma c’è. E la loro vita morale – quel filo di vita morale che resta loro – è regolata da quel moncone di fede”.
Lo scrive in nota alla pubblicazione della sceneggiatura, in finta garbata polemica con Carnelutti, il suo steso avvocato. Il querelante, Salvatore Pagliuca, era un democristiano di Potenza, eletto alle prime due legislature, e in cerca, dopo due legislature di astinenza, di un rilancio. Non sarà eletto ma il processo si farà lo stesso, e a Pasolini sarà ingiunto di eliminare, in correità col produttore, il nome Pagliuca dal film.

Sempre ben vestito, correttamente, seppure di dubbio gusto (camicie trasparanti, o traforate, gale): camicia bianca e cravatta, anche nel pieno del casual e dell’unisex. Contro i capelloni. Contro i jeans. Un anticonformista dell’ordine .
Sui jeans faceva eccezione per quelli aderenti dei ragazzi, purché dal “pacco” – scriveva – ben fornito.

“Pasolini è rimasto solo”: Walter Siti, che lo ha avuto sotto mano più di ogni altro in questi quaranta anni, curatore delle opere, lo trova derelitto (domenica su “La lettura), in mezzo al pettegolio – “nella cultura italiana è tutto un brusio, Pasolini Pasolini Pasolini, tutto un ristampare e fare convegni, senza che si imposti un discorso serio”. Impostare un discorso serio probabilmente non sarebbe piaciuto a Pasolini, ma è vero ciò che Siti denuncia e a cui tenta di rimediare.
Il rimedio di Siti e però sconsolato: “la sua attività principale” vuole “la letteratura”. Ma “letterariamente” lo dice “un poligrafo”. Di “talento poliedrico”, ma confuso e confusionario – “meglio il cinema”.

Pubblico – “Io parlo al vento, è il privilegio di chi non ha pubblico”, si consola Domenico Lopresti, il perdente protagonista del romanzo di Anna Banti, “Noi credevamo”. È la condizione del blogger. Che un pubblico ce l’ha, ma informe e indistinguibile – se lo compone, anche. Del romanziere e del poeta, che si creano (immaginano, ipotizzano) un pubblico.

leterautore@antiit.eu

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