Firenze - “Città illustre,
divisa fra un’agitazione fittizia e un costume gretto", Anna Banti la fa dire
dal protagonista del romanzo “Noi credevamo”. Lo avrebbe potuto dire lei. Animatrice
culturale di prim’ordine, scrittrice di notevole forza, e tuttavia dimenticata.
Nata a Firenze, sposata a Longhi, dopo esserne stata collaboratrice, animatrice
di quel che di vivo era rimasto in città di letteratura dopo la guerra, ma isolata.
Isolatissima e presto dimenticata. Un isolamento che risentiva in vita, non personale
probabilmente ma funzionale (la cultura). Al punto da dichiararsi, lei nata e
vissuta a Firenze, da madre pratese e padre torinese, “calabrese” – giusto perché
un nonno era nato in Calabria, dove non era mai tornato. Cioè estranea.
Magia – Ritorna, alla
“fine” della tecnica? Della tecnica estremizzata, allo spasimo, ma senza
effetti per la conoscenza, e deleteri per la sensibilità. Si celebra con
dovizia Della Porta, per i cinquecento anni della morte come se fosse un
Galileo misconosciuto – non il Della Porta architetto, l’alchimista e mago, che
si dilettava secretorum naturae. Campanella
ritorna per il solo aspetto esoterico. Nuccio Ordine pubblica uno studio
approfondito di “miti, emblemi, spie”, attorno a Enrico III, re di Francia e di
Polonia, con segreti legami oltre Manica, nel dibattito dell’epoca, anche
sotterraneo, su re (stregone) e religione, sulla natura, e sulla natura della
conoscenza. Marc Fumaroli, che glielo presenta, ne parla come di un
prolungamento della stagione warburghiana delle mitografie: dei poteri delle
immagini, delle potenze angeliche, degli effluvi magici - Giordano Bruno
collegando a Turing, il matematico.
Manzoni – Singolare
celebrazione del “Sole 24 Ore” e del “Corriere della sera” alla riapertura al
pubblico della casa milanese in via Morone. Quattro pagine, otto articoli delle
migliori firme, e niente, solo rigaggio. Possibile che Manzoni non abbia più nulla di
dire? O è Milano che non sa più che dirgli? Se ne gloria, ma come di una pietra
diruta.
Pasolini - Il “Narciso
ferito” lo dice Nico Naldini ricordando la notte quando lo accompagnò alla
stazione di Casarsa, alla fuga, con la madre, per Roma. Partirono perché la
sera Pier Paolo aveva preso a pugni il padre Carlo Alberto, rientrato a casa
ubriaco e manesco, come spesso da ultimo gli capitava. Dopo otto anni di guerra
e prigionia, Carlo Alberto era tornato attivo, specialmente fiero del suo
figlio superstite, malgrado i pettegolezzi e gli scandali. Ma, rìfiutato dalla
sposa Susanna, nell’ambiente chiuso di un paese non suo, si era ingaglioffito – la zia
Susanna, sorella della madre, Naldini ricorda sempre allo specchio, in
interminabili toilettes, anche nello
sfollamento a Versuta nel 1944-45, nella piccola stanza d’affitto che
condivideva col figlio ventiduenne prediletto.
Nel 1949, l’anno dello scandalo e del primo processo, Naldini ricorda
che il cugino aveva una fidanzatina a San Vito. Al processo fu condannato
localmente, ma poi assolto in appello e in Cassazione.
Fu l’unica “scoperta” di Contini. Il filologo emerito, così tanto
disponibile, non ne fece altre. Grandezza di Pasolini poeta friulano? Caso?
Destino?
È il recordman dei processi
prima di Berlusconi – o forse il recordman
in assoluto: almeno una cinquantina di procedimenti si elencano a suo carico,
molti per i film. Con alcune condanne pecuniarie ma mai un giorno di prigione.
L’accostamento a Berlusconi non è blasfemo come sembra: è l’indice di
una correità del sistema giudiziario, si voglia di destra oppure di sinistra.
L’avvocato Francesco Carnelutti, che lo difese in alcuni processi “cinematografici”
dei primi anni 1960, e lo faceva assolvere, milanese principe del foro, ottantenne,
democristiano professo, veniva indicato dai cronisti giudiziari (il “complesso
giornalistico-giudiziario”) come l’amante di Pasolini. Tutto si poteva dire
anche allora.
Nella difesa di “Accattone”, contro un avvocato lucano in cerca di
pubblicità alle elezioni, che per questo lo aveva denunciato dicendosi offeso
da un personaggio malavitoso del film chiamato col suo cognome, Pasolini spiega
che “Accattone” è un film “religioso”. Tra virgolette, dice: “Io, che sono
marxista, sarei sciocco se non ammettessi che le masse sottoproletarie sono
ancora succubi di tale fede, e che la loro vitalità è una forma, tutto sommato,
di religiosità”. Cioè inspiegabile. Ma in un senso che è in realtà religioso. Di una “fede atroce, pagana, barocca, corrotta”, e tuttavia: “Credente è
Stella, e credente è Accattone: due sottoproletari e, peggio, due relitti…. La
fede di tutti e due è ingenua, superstiziosa e quasi sacrilega: ma c’è. E la
loro vita morale – quel filo di vita morale che resta loro – è regolata da quel
moncone di fede”.
Lo scrive in nota alla pubblicazione della sceneggiatura, in finta
garbata polemica con Carnelutti, il suo steso avvocato. Il querelante, Salvatore
Pagliuca, era un democristiano di Potenza, eletto alle prime due legislature, e
in cerca, dopo due legislature di astinenza, di un rilancio. Non sarà eletto ma
il processo si farà lo stesso, e a Pasolini sarà ingiunto di eliminare, in
correità col produttore, il nome Pagliuca dal film.
Sempre ben vestito, correttamente, seppure di dubbio gusto (camicie
trasparanti, o traforate, gale): camicia bianca e cravatta, anche nel pieno del
casual e dell’unisex. Contro i capelloni. Contro i jeans. Un anticonformista
dell’ordine .
Sui jeans faceva eccezione per quelli aderenti dei ragazzi, purché dal
“pacco” – scriveva – ben fornito.
“Pasolini è rimasto solo”: Walter Siti, che lo ha avuto sotto mano più
di ogni altro in questi quaranta anni, curatore delle opere, lo trova derelitto
(domenica su “La lettura), in mezzo al pettegolio – “nella cultura italiana è
tutto un brusio, Pasolini Pasolini Pasolini, tutto un ristampare e fare
convegni, senza che si imposti un discorso serio”. Impostare un discorso serio
probabilmente non sarebbe piaciuto a Pasolini, ma è vero ciò che Siti
denuncia e a cui tenta di rimediare.
Il rimedio di Siti e però sconsolato: “la sua attività principale”
vuole “la letteratura”. Ma “letterariamente” lo dice “un poligrafo”. Di “talento
poliedrico”, ma confuso e confusionario – “meglio il cinema”.
Pubblico – “Io parlo al
vento, è il privilegio di chi non ha pubblico”, si consola Domenico Lopresti,
il perdente protagonista del romanzo di Anna Banti, “Noi credevamo”. È la
condizione del blogger. Che un pubblico ce l’ha, ma informe e indistinguibile –
se lo compone, anche. Del romanziere e del poeta, che si creano (immaginano,
ipotizzano) un pubblico.
leterautore@antiit.eu
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