Albero
–
Mohammed Khadda, l’artista algerino del secondo Novecento che ha rigenerato in
pittura la calligrafia araba, lo trova, in una delle sue “Rêveries”, “confidente
privilegiato delle donne cabile”, al nord berbero del paese – oltre che
soggetto privilegiato, di fine stilizzazione, della ceramica locale: “Ai suoi
rami bassi fremono al vento amuleti, ex voto, nastri, esorcismi, perché si
colmi una solitudine, si attenui un male o prenda fine l’esilio”. Per una sorta
di potere magico a esso associato: “L’albero e la sua rappresentazione si specchiano,
narcisi, in magia….”.
Gadda, “Diario di Caporetto”, prigioniero di guerra nella fortezza
tedesca di Rastatt, affamato (raccoglieva i resti nella spazzatura) e depresso, a ventiquattro anni, si dice riconfortato dalla “vista d’un albero, nudo nell’inverno,
contro alcune luci del tramonto”. Per tutta la vita aggiunge, gli alberi gli
sono stati di conforto, come segni del passato, di un radicamento: “Sempre gli
alberi mi commuovono, risvegliando le immagini del passato con grande potenza: hanno
forza di suscitare idee e ricordi e stati d’animo per me quasi vicina a quella
della musica. Da bambino li veneravo, li guardavo con amore; sempre fui loro
amico”.
Alain Corbin, lo storico delle
sensibilità, che all’albero ha dedicato una lunga ricerca, gli trova un’enormità
di significati. A partire dal Duomo di Milano, l’idea architetturale gotica,
che ad esso si ispira, del tempo come un bosco sacro. Perpetuazione di riti
antichi, anzi dei primi riti religiosi sul continente, da Dodona e Delo al
druidismo. Albero della Conoscenza nella Bibbia, sacro per molti millenni. La dendrolatria è la forma religiosa più antica, più
delle religioni rivelate, biblismo compreso. In aspetto di palma, che sempre
rinasce, di tasso, di olivo, di platano, di olmo, di cedro naturalmente del
Libano.
L’idea più approssimata nel
reale alla resurrezione e all’eterno. Metamorfico, metempsicotico, durevole. Mezzo
di scrittura, anche, nella polpa e nella corteccia, dacché c’è storia – e anche
oggi, malgrado la scrittura elettronica. Nonché scrittura esso stesso:
testimone fisico e metafisico, degli eventi naturali e della stessa storia,
come e forse più dei mammiferi.
Con
numerose funzioni, si può aggiungere, pratiche: da frutto, da ombra, da decoro,
frangivento, antimalarico. Ma più simboliche. L’albero della vita, della
sapienza, dei cimiteri - il cipresso, il tasso o albero della morte - ma non
della morte, di Giuda, delle ninfe e dei satiri, della divinazione. Alberi
incantati, onirici, fantastici. Molto letterari, in poesia e in prosa: Alberi
animati, alberi che sanguinano, specie in presenza del taglialegna, o furiosi e
minacciosi, o introspettivi e muti. Confidenti e mentori, interlocutori morali.
Alberi anche
come bellezza e come desiderio - “il suo essere in pieno desiderio” Valéry dice
“certamente di natura femminile”, benché protrudente. O della solitudine
socievole, nello stormire e nella quiete. O dell’alterità, dell’indifferenza. Ma
più spesso proiezione degli stati d’animo. E ancora di più partecipe, sodale
taciturno e solido.
Piantare
un albero ha usato a lungo, e fino al secolo scorso, quasi come procreare –
fare un figlio, scrivere un libro, erigere un monumento, meritare della patria.
Per assicurarsi la memoria.
Analogamente
vitalistica la funzione erotica. C’è un erotismo dell’albero che Corbin
documenta con una serie sorprendente di riferimenti. In Proust in primo luogo. Ma
più di tutti nell’Ariosto e il Tasso, anzi in tutto il Rinascimento, che del bosco
fa “il luogo dell’erranza erotica”. Per non dire della “Genesi”, lo storico aggiunge
ironico: Eva, “la peccatrice”, bella come il diavolo, la sua nudità, la
lussuria, il tradimento, la menzogna, la discordia, il maleficio, la caduta, la
disgrazia, tutto si lega all’albero, se infruttuoso.
Dialetto
–
Si tengono su, i raccontini di quest’ultima raccolta di Camilleri, “Le
vichinghe volanti”, solo perché in dialetto? Trame esili, aneddoti scontati,
personaggi di maniera, però di un gusto “diverso”. Per l’uso del dialetto, come
se venissero impastati con un nuovo materiale, che da solo fa l’opera. Anche
per la suggestione dei film su Rai Uno – Michele Riondino che intima “No’ ‘cangiate
canali!”. È probabile – la vecchia serie di Montalbano, con Zingaretti, regista
Sironi, ha creato un mondo.
È l’effetto del leghismo, del regionalismo? Ma altre forme dialettali non attecchiscono, il napoletano per esempio, il tentativo di
riproporre il romanesco. È la Sicilia
che si impone, che ha una consistenza irriducibile alle volgarizzazioni, al
tutto mafia, a Crocetta, ai suoi giudici, ai suoi politicanti, ai suoi giornalisti.
La
suggestione è anche, di rimando, al “Decamerone”, alla novellistica del Tre-Quattrocento.
Quando anche il toscano-volgare era un po’ dialetto, una parlata locale tra le
altre. Oltre che per il carattere sollazzevole delle storie.
Grande
Guerra - Era contro la stragrande maggioranza degli italiani, era a
favore la stragrande maggioranza, forse la totalità, dei letterati, poeti e
romanzieri in prima fila. C’è passato tutto il primo Novecento. Gabriele
Pedullà ne fa la lista nella presentazione di De Roberto, “La paura” - e
qualcuno manca, per esempio Gualtiero Tumiati: Alvaro, Bacchelli, Bontempelli, Borgese,
Cecchi, Comisso, D’Annunzio, Gadda, Govoni, Jahier, Lussu, Malaparte,
Marinetti, Monelli, Montale, Palazzeschi, Mario Puccini, Rebora, Saba, Savinio,
Sbarbaro, Serra, Soffici, Solmi, Stuparich, Tozzi, Ungaretti. Più quelli che
avrebbero voluto ma furono riformati: Boine, Gozzano, Arturo Onofri, Papini. E
quelli che lamentarono di non aver fatto in tempo per essere nati dopo il 1900
- Pedullà cita Gallian e Brancati, che
per questo poi sarà “patriota” con Mussolini. Più quelli che erano troppo vecchi
per andare al fronte – D’Annunzio, classe 1863, ebbe bisogno di una speciale dispensa
- ma vissero ugualmente la guerra con entusiasmo: Di Giacomo, Panzini,
Pirandello e Svevo.
Nazismo
–
“Il nazismo resta un mistero”, dice Paolo Maurensig, a Maurizio G. Mian su
“Sette”. Cioè?
Thoreau – Un falso
ambientalista, narcisista e insocievole. Abolizionista, questo sì, ma
misoneista, misantropo, e un po’ razzista, anche contro gli irlandesi che
morivano di fame, che gli capitò d’incontrare nel 1849. Kathryn Schulz ne fa
sul “New Yorker” un ritratto desolante. Con un taglio da pamphlet, prevenuto, ma non senza verità, sia sul versante natura
che su quello disobbedienza civile. “La sola ragione per cui ammiriamo “Walden” è che lo leggiamo in selezione”. Tutto il malloppo in effetti è
indigeribile. Il primo capitolo, non persuasivo, sull’“Economia”, inneggia alle
virtù dell’astinenza ma in senso morale, della purezza e non dell’anticonsumismo
come viene attualmente letto - e per di più in effetti ispira poco, è sentenzioso
e noioso. All’uscita e per molti anni non suscitò alcuna curiosità.
L’apostolo del ritorno alla natura era nella realtà “ossessionato
di sé”. La stessa disobbedienza civile, suo trademark, riduce di fatto a “fare in qualsiasi momento ciò
che ritengo giusto”.
L’incontro con Emerson, che anche lui aveva posto la
residenza a Concord, ebbe un effetto positivo enorme su Thoreau, che però non
si liberò dei suoi limiti – Emerson lo introdusse al trascendentalismo, lo
incoraggiò a scrivere, lo impiegò come tuttofare e insegnante dei suoi figli, e
gli affittò la terra in riva allo stagno dove Thoreau abiterà a lungo dal 1845
e scrivera “Walden”. Valetudinario
e misantropo lo dice Stevenson nel 1880, quindici anni dopo la
morte.
letterautore @antiit.eu
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