martedì 20 ottobre 2015

Letture - 232

letterautore

Albero – Mohammed Khadda, l’artista algerino del secondo Novecento che ha rigenerato in pittura la calligrafia araba, lo trova, in una delle sue “Rêveries”, “confidente privilegiato delle donne cabile”, al nord berbero del paese – oltre che soggetto privilegiato, di fine stilizzazione, della ceramica locale: “Ai suoi rami bassi fremono al vento amuleti, ex voto, nastri, esorcismi, perché si colmi una solitudine, si attenui un male o prenda fine l’esilio”. Per una sorta di potere magico a esso associato: “L’albero e la sua rappresentazione si specchiano, narcisi, in magia….”.

Gadda, “Diario di Caporetto”, prigioniero di guerra nella fortezza tedesca di Rastatt, affamato (raccoglieva i resti nella spazzatura) e depresso, a ventiquattro anni, si dice riconfortato dalla “vista d’un albero, nudo nell’inverno, contro alcune luci del tramonto”. Per tutta la vita aggiunge, gli alberi gli sono stati di conforto, come segni del passato, di un radicamento: “Sempre gli alberi mi commuovono, risvegliando le immagini del passato con grande potenza: hanno forza di suscitare idee e ricordi e stati d’animo per me quasi vicina a quella della musica. Da bambino li veneravo, li guardavo con amore; sempre fui loro amico”.

Alain Corbin, lo storico delle sensibilità, che all’albero ha dedicato una lunga ricerca, gli trova un’enormità di significati. A partire dal Duomo di Milano, l’idea architetturale gotica, che ad esso si ispira, del tempo come un bosco sacro. Perpetuazione di riti antichi, anzi dei primi riti religiosi sul continente, da Dodona e Delo al druidismo. Albero della Conoscenza nella Bibbia, sacro per molti millenni. La dendrolatria è la forma religiosa più antica, più delle religioni rivelate, biblismo compreso. In aspetto di palma, che sempre rinasce, di tasso, di olivo, di platano, di olmo, di cedro naturalmente del Libano.
L’idea più approssimata nel reale alla resurrezione e all’eterno. Metamorfico, metempsicotico, durevole. Mezzo di scrittura, anche, nella polpa e nella corteccia, dacché c’è storia – e anche oggi, malgrado la scrittura elettronica. Nonché scrittura esso stesso: testimone fisico e metafisico, degli eventi naturali e della stessa storia, come e forse più dei mammiferi.
Con numerose funzioni, si può aggiungere, pratiche: da frutto, da ombra, da decoro, frangivento, antimalarico. Ma più simboliche. L’albero della vita, della sapienza, dei cimiteri - il cipresso, il tasso o albero della morte - ma non della morte, di Giuda, delle ninfe e dei satiri, della divinazione. Alberi incantati, onirici, fantastici. Molto letterari, in poesia e in prosa: Alberi animati, alberi che sanguinano, specie in presenza del taglialegna, o furiosi e minacciosi, o introspettivi e muti. Confidenti e mentori, interlocutori morali.
Alberi anche come bellezza e come desiderio - “il suo essere in pieno desiderio” Valéry dice “certamente di natura femminile”, benché protrudente. O della solitudine socievole, nello stormire e nella quiete. O dell’alterità, dell’indifferenza. Ma più spesso proiezione degli stati d’animo. E ancora di più partecipe, sodale taciturno e solido.

Piantare un albero ha usato a lungo, e fino al secolo scorso, quasi come procreare – fare un figlio, scrivere un libro, erigere un monumento, meritare della patria. Per assicurarsi la memoria.
Analogamente vitalistica la funzione erotica. C’è un erotismo dell’albero che Corbin documenta con una serie sorprendente di riferimenti. In Proust in primo luogo. Ma più di tutti nell’Ariosto e il Tasso, anzi in tutto il Rinascimento, che del bosco fa “il luogo dell’erranza erotica”. Per non dire della “Genesi”, lo storico aggiunge ironico: Eva, “la peccatrice”, bella come il diavolo, la sua nudità, la lussuria, il tradimento, la menzogna, la discordia, il maleficio, la caduta, la disgrazia, tutto si lega all’albero, se infruttuoso.

Dialetto – Si tengono su, i raccontini di quest’ultima raccolta di Camilleri, “Le vichinghe volanti”, solo perché in dialetto? Trame esili, aneddoti scontati, personaggi di maniera, però di un gusto “diverso”. Per l’uso del dialetto, come se venissero impastati con un nuovo materiale, che da solo fa l’opera. Anche per la suggestione dei film su Rai Uno – Michele Riondino che intima “No’ ‘cangiate canali!”. È probabile – la vecchia serie di Montalbano, con Zingaretti, regista Sironi, ha creato un mondo.
È l’effetto del leghismo, del  regionalismo? Ma altre forme dialettali non attecchiscono, il napoletano per esempio, il tentativo di riproporre il romanesco.  È la Sicilia che si impone, che ha una consistenza irriducibile alle volgarizzazioni, al tutto mafia, a Crocetta, ai suoi giudici, ai suoi politicanti, ai suoi giornalisti.
La suggestione è anche, di rimando, al “Decamerone”, alla novellistica del Tre-Quattrocento. Quando anche il toscano-volgare era un po’ dialetto, una parlata locale tra le altre. Oltre che per il carattere sollazzevole delle storie.

Grande Guerra  - Era contro la stragrande maggioranza degli italiani, era a favore la stragrande maggioranza, forse la totalità, dei letterati, poeti e romanzieri in prima fila. C’è passato tutto il primo Novecento. Gabriele Pedullà ne fa la lista nella presentazione di De Roberto, “La paura” - e qualcuno manca, per esempio Gualtiero Tumiati:  Alvaro, Bacchelli, Bontempelli, Borgese, Cecchi, Comisso, D’Annunzio, Gadda, Govoni, Jahier, Lussu, Malaparte, Marinetti, Monelli, Montale, Palazzeschi, Mario Puccini, Rebora, Saba, Savinio, Sbarbaro, Serra, Soffici, Solmi, Stuparich, Tozzi, Ungaretti. Più quelli che avrebbero voluto ma furono riformati: Boine, Gozzano, Arturo Onofri, Papini. E quelli che lamentarono di non aver fatto in tempo per essere nati dopo il 1900 -  Pedullà cita Gallian e Brancati, che per questo poi sarà “patriota” con Mussolini. Più quelli che erano troppo vecchi per andare al fronte – D’Annunzio, classe 1863, ebbe bisogno di una speciale dispensa - ma vissero ugualmente la guerra con entusiasmo: Di Giacomo, Panzini, Pirandello e Svevo.  

Nazismo – “Il nazismo resta un mistero”, dice Paolo Maurensig, a Maurizio G. Mian su “Sette”. Cioè?

Thoreau – Un falso ambientalista, narcisista e insocievole. Abolizionista, questo sì, ma misoneista, misantropo, e un po’ razzista, anche contro gli irlandesi che morivano di fame, che gli capitò d’incontrare nel 1849. Kathryn Schulz ne fa sul “New Yorker” un ritratto desolante. Con un taglio da pamphlet, prevenuto, ma non senza verità, sia sul versante natura che su quello disobbedienza civile. “La sola ragione per cui ammiriamo “Walden” è che lo leggiamo in selezione”. Tutto il malloppo in effetti è indigeribile. Il primo capitolo, non persuasivo, sull’“Economia”, inneggia alle virtù dell’astinenza ma in senso morale, della purezza e non dell’anticonsumismo come viene attualmente letto - e per di più in effetti ispira poco, è sentenzioso e noioso. All’uscita e per molti anni non suscitò alcuna curiosità.
L’apostolo del ritorno alla natura era nella realtà “ossessionato di sé”. La stessa disobbedienza civile, suo trademark, riduce di fatto a “fare in qualsiasi momento ciò che ritengo giusto”.

L’incontro con Emerson, che anche lui aveva posto la residenza a Concord, ebbe un effetto positivo enorme su Thoreau, che però non si liberò dei suoi limiti – Emerson lo introdusse al trascendentalismo, lo incoraggiò a scrivere, lo impiegò come tuttofare e insegnante dei suoi figli, e gli affittò la terra in riva allo stagno dove Thoreau abiterà a lungo dal 1845 e scrivera “Walden”. Valetudinario e misantropo lo dice Stevenson nel 1880, quindici anni dopo la morte.

letterautore @antiit.eu 

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