Titolo
procedurale, più forte nella formula tedesca da cui Magris è partito, per tanti delitti nazisti, “Im Sinne der Anklage, unschuldig”, ai sensi
dell’accusa non colpevole, per un atto d’accusa alla storia. Che emerge strada facendo. Attorno
alla costituzione di un Museo Ares per Irene, della guerra per la pace. Che un
collezionista di reperti di guerra ha lasciato da costituire, essendo morto
prematuramente nell’incendio di uno dei padiglioni che ospitavano la collezione.
Indagine, come Magris ci ha abituati a leggere, “Illazioni su una sciabole”, “Danubio”,
“Microcosmi”, e non romanzo. Benché si passi di continuo dalla terza alla prima
persona, come usa al cinema. Alla ricerca della verità, una ricerca. Con un non
luogo a procedere anche per la storia – per la verità. L’amore ne supera la
limitatezza, forse – se non finisce con il bacio di Rilke, che “distrugge
l’incanto”.
Una storia di
storie, una satura. Il romanzo del
Museo si articola in due filoni: l’ordinamento della mostra, ogni reperto una storia a sé, con una didascalia che è un
racconto, e i diari del collezionista-fondatore, collaborazionista, che
naturalmente si nega. In parallelo, fa da rete la “Storia di Luisa”, che è l’architetto
incaricato di ordinare il Museo, ebrea e mulatta. La sua storia è quella della
madre Anna, scampata alla Risiera di San Sabba, il campo di sterminio
triestino, dov’era finita denunciata benché si fosse ben cautelata, forse
dall’ebreo Grini, che con la moglie ne aveva denunciato molti. Anna, che nello
sfollamento in casa della vecchia balia croata
aveva appreso il croato, lavorerà come interprete di croato
all’amministrazione alleata di Trieste, trovandosi a dover frequentare anche il colonnello Ernst Lerch,
“boia in capo alla Risiera”, a cui nessuno chiede conto di nulla, e anzi è
ospite del maggiore Preston, che dirige l’amministrazione alleata. Anna ha
concepito Luisa con un sergente nero della Us Army, poi perito in un incidente
ad Aviano - causato da un velivolo difettoso della Zanussi, che aveva diritto
d’uso della pista di Aviano.
Una dichiarazione d’amore per Trieste, in tutti i suoi angoli, e per il suo mare. E
una cornucopia di storie singolari, personaggi, popoli, eventi, che il filologo
curioso e paziente ha indagato, di ordinarietà straordinaria, cui Magris ci ha
avvezzi. I Bodoli del Quarnaro, gli
Huzuli di Galizia, o la geografia impoverita dall’omologazione, e dallo stesso nazionalismo.
L’arte della guerra: Sun Tzu, Vergerio, Montecuccoli, Clausewitz. Il T-34, il carro armato con cui Stalin sconfisse Hitler. Il podestà
Enrico Paolo Salem, “il miglior sindaco della città”, la teneva pulita, “circonciso
battezzato e fascista antemarcia”. Un omaggio del germanista a Praga, alla
resistenza ceca, “Cactus Marcescens Hitler”. Due omaggi, anzi tre. Uno alla “tradizione
furtiva e inventiva jiddish”, da studioso alle origini dell’ebraismo orientale,
in “Un Chamacoco a Praga”, la storia dell’indio del Chaco Čerwuiš portato a
Praga dal “grande botanista” Vojtěch Frič
insieme con i cactus per risparmiarlo alla guerra tra Paragay e Bolivia, che è invenzione
di Karel Krejčí, animatore del “vagabondo teatro jiddish” in città. Raddoppiato
con Červiček, avventuroso praghese nel Chaco durante la stessa guerra. Il buon “Soldato
Schimek”, austriaco giustiziato dalla Wehrmacht perché “s’era rifiutato di
sparare sulla popolazione civile polacca”. La liberazione di Trieste, di tutti
contro tutti. Lo “s’ciaveto, l’antico rito glagolitico della Messa”. La storia
di “Luisa de Navarrete”. Le responsabilità e complicità, da ultimo, della
Risiera di San Sabba, il campo di sterminio forse più ingiurioso, aperto in
città, a Trieste, che dopo la guerra si vollero cancellate – nazisti e fascisti
servivano contro il comunismo.
I particolari
sono precisi, anche se spesso solo allusi. La rappresentazione vuole essere del
male. Dell’incertezza del giusto nella storia, che come si sa è fatta dal vincitore.
Della vita quindi insensata. Di cui niente può venire a capo, nemmeno l’amore. Luisa,
che seguiamo giovanile e immaginifica, vive con un compagno disfatto dalla
sclerosi. La stessa Luisa è già “una scia di lumaca”, anche se non lo sa: “I
suoi bei capelli ancora scuri nel vento… non sapevano che esisteva quel vento”.
I pensieri sono subito tristi attorno al collezionista e all’architetto. Una
perorazione a tratti anche in senso tecnico, un’arringa da pubblico ministero. Ma
da pm sconfitto: il caleidoscopio è di accoramento costante, quasi una storia
personale.
Ogni reperto
che viene schedato è una storia: una persona, un fatto, per lo più ignobile, un
ricordo. La scrittura è invece “suggestiva”, e veloce, anche se sovraccarica. Ispirata
più che flaubertiana – la cifra che caratterizzava Magris. Ricercata, anzi preziosa.
Di pensieri. “La morte non esiste, è solo un invertitore”, una macchina che
rovescia la vita – come si “rovesciavano” i vestiti. L’amor-te. “La scrittura,
pugnale acuminato che va dritto al cuore”. Di lirismi. Di parole (eone, barocco,
invertitore, mulvaceo, glagolitico), nel quadro di una “riforma globale del
vocabolario”, o Dud, Dizionario universale definitivo, cui il collezionista
anche indulgeva. Inventore, oltre che di
parole, di “un sistema scientifico per nutrirsi soltanto d’aria” e altre
diavolerie. Ma anche volubile – queste due piste sono dette e abbandonate.
Una summa
anche dello scrittore-collezionista, dei suoi metodi di ricerca e scrittura, delle sue fobie
e le sue predilezioni. Una storia non veritiera, come quella delle “Illazioni”
sul generale-scrittore Piotr Krasnow, e tuttavia vera. L’orchestrazione
narrativa “naturale” degli strumenti filologici. E le storie di vita che
sfiancano come vagabondaggi erratici, inconcludenti. Da germanista, ma di più
scrittore di frontiera – di più frontiere. Con Salvore anche qui, oggi
Savudrije, e altri riferimenti minori del suo personale teatro. Di un io che
necessariamente vaga se non è pieno di se stesso, fino alla follia di Hitler –
l’io interiore che Lutero inventò, agostiniano integrale. Ma con la novità di
una prosa “aumentata”.
Un quadro opulento, forse troppo. Come una tonnara piena, di cui
all’autore ripugna la mattanza. Di testi vari affastellati. Anche prose che negli anni è venuto scrivendo
sui giornali. Il bacio di Rilke per esempio, esercitazione estiva sul “Corriere
della sera” quattro o cinque anni fa – “il bacio distrugge l’incanto”. O la “Storia
di Luisa de Navarrete”, lettura goduta e censita a suo tempo delle “Lettres créoles” di Chamoiseau e Confiant. Lo
scrittore come il musicista si riscrive, ma con misura.
Il “maniaco museologo”
Magris nomina nel congedo, e sono due pagine che riconciliano: è il professor
Diego di Henriquez, personaggio noto a Trieste. La sua storia è in realtà
appassionante, quella della storia insensata: il collezionista furioso, che
finisce contro l’oggetto della sua passione. Più di quella di Luisa, programmatica
– politica - e fredda.
Claudio Magris,
Non luogo a procedere, Garzanti, pp.
362 € 20
Nessun commento:
Posta un commento