“Vai o non vai al Sud, il Sud ti è dentro
come una maledizione”, Saverio Strati. In esergo a “Terra inquieta” l’antropologo
culturale Vito Teti propone una serie di citazioni tutte memorabili. Strati,
però, viveva nei pressi di Firenze, dove ognuno è forestiero – il fiorentino è
molto chiuso nella sua unicità, anche con gli altri fiorentini.
Vero è invece Tahar Ben Jelloun: “Coloro
che non hanno altra ricchezza che la loro differenza etnica e culturale sono
votati all’umiliazione e a ogni forma di razzismo. Danno anche fastidio. La
loro presenza è di troppo”.
Si moltiplicano di nuovo i libri di
mafia, aggiornati alla ‘ndrangheta. Finito il ribaldo Berlusconi, si vede che la
voglia di turpitudine non è e questo cessata, e si torna al genere usato,
pronubi Enzo Biagi e invadenti cronisti giudiziari. Sono libri di e su pentiti.
La storia fatta dai pentiti, è mai scesa così in basso? E dai Procuratori dei
pentiti, certo – ogni pentito ha un Procuratore.
Aspromonte
È il “Luogo dell’Inaccessibile”,
l’“ultimo, romantico baluardo dell’’Ignoto”. Ma “quanto sarà grande questo terribile
Aspromonte? Mah, più meno come le
Langhe, come la Brianza, come il Friuli, ci risponde chi lo conosce, giusto per
darci un’idea. A sorvolarlo in elicottero ci si mette di meno che ad
attraversare Milano o Roma in automobile. Beh, ma allora?” La risposta è che è
pieno di forre, canaloni, fittissime boscaglie e occulte grotte. Non è vero, ma
“l’inesperto tace, pensando però in cuor suo che l’Aspromonte, con tutto il
rispetto, non può essere più ostico delle sierre americane, delle giungle
asiatiche, delle hjghlands scozzesi, delle Cévennes francesi, territori
anch’essi, ai tempi loro, pieni di forre, canaloni e fuorilegge, e che
nondimeno un adeguato John Wayne, alla testa di un adeguato 7° Cavalleggeri…”.
È “Il ritorno del cretino”, di Carlo
Fruttero e Franco Lucentini.
A lungo, per quasi quarant’anni, è stato
sinonimo di rapimenti di persona. Paolo Pollichieni he ha fatto il censimento
per i quarant’anni della “Gazzetta del Sud”, 1952-1992, con questi numeri: 134
sequestri operati in Calabria, 24 rapimenti eseguiti a Roma e al Nord,
Piemonte, Lombardia, con gli ostaggi trasferiti nell’Apsromonte - più 56
operati fuori Calabria a opera di malviventi calabresi. In questi termini: “Una
via crucis della Calabria che ha visto la sua immagine trasferirsi,
nel’immaginario collettivo, in quella di terra dei sequestri, battendo in
questo triste primato anche la Barbagia”. Con molte “stranezze”: “Un fenomeno
prima sottovalutato, poi trattato con grande dilettantismo investigativo, mai
compreso ed esplorato nella sua essenza socio-criminale. Si è tentato perfino
di convivere con i sequestri”.
Le stranezze arrivano attorno al 1990. I
paesi protestano, le donne, i giovani, i vescovi, i parroci. Il 1990 vede due
soli rapimenti. Ma il Nucleo Anti Sequestri Polizia di Stato (Naps) viene
smantellato. La caserma dei “Cacciatori (Carabinieri) nel cuore
dell’Aspromonte, completata dopio vari attentato, resta inutilizzata. Nel 1991
i sequestri sono dieci. “E comimncia la stagione delle «stranezze». Cominciano
gli «errori» dei sequestratori, si susseguono «conflitti a fuoco», in cui tutti
sparano ma nessuno sa farlo bene, si impongono figure di «ostaggi Rambo» che
strappano catene, spaccano lucchetti, corrono alla velocità della luce e
beffano i loro custodi”.
Effetto di assicurazioni ben riuscite?
Sullo stesso speciale della “Gazzetta
del Sud” Franco Calabrò inanella una serie di gustosi ricordi della Montagna,
da cronista di mala di lungo corso. Uno in particolare merita di essere
ripreso: “Emilio Santillo fumava sigari Avana, enormi e profumati. Sulla sua
scrivania teneva una pistola col calcio di madreperla con la quale amava
gingillarsi, mentre intratteneva – e la cosa era ormai un rito – l’inviato del
giornale del nord spedito di corsa «laggiù» per sentire cosa veramente questo
gentiluomo campano (per noi tutti era «lo sceriffo”) avesse scoperto dopo
l’Appalachin della ‘ndrangheta, dopo la sorpresa nella radura di Montalto, uno
spiazzo tra enormi faggi nel quale, la prima domenica d’ottobre del 1969, i
notabili della mafia della provincia di Reggio Calabria stavano tenendo una
riunione”.
Già questi mafiosi divisi
amministrativamente per provincia – per questura – mettono in allarme. Ma il
meglio deve venire – i mafiosi sono anche incappucciati, come una setta: “I
nomi delle persone incappucciate? «Ve li daremo, ma non adesso. Aspettate e
vedrete». Così il questore Santillo rassicurava gli inviati, offrendo sigari e
whisky, centellinando a sua volta le notizie, una al giorno. «Così – diceva –
li teniamo qui». Per tre anni la favola degli incappucciati di Montalto, degli
insospettabili, grosse personalità del mondo politico si diceva, fatte fuggire
nel momento dell’irruzione della polizia, è stata ripetuta, condita in tutte le
salse”.
Non si può scappare dal Montalto, in cima
all’Aspromonte, non ci sono caverne sotterranee o altre vie di fuga. Ma ecco il
meglio: “Siamo stati in pochi («gli altri vanno via, voi restate – diceva
Santillo - perciò state attenti!») a saperlo dall’inizio: gli incappucciati di
Montalto non sono mai esistiti. È stata la brillante e un po’ cinica trovata di
Santillo, il quale, così facendo, era riuscito a far tenere i riflettori accesi
su di lui per mesi, per anni addirittura. Tornando a Reggio Calabria, in
qualità di capo dell’Antiterrorismo, lo confessò apertamente, sbottando in una
grossa risata: «È stata una mia invenzione – disse – i politici incappucciati a
Montalto non c’erano, ma i fatti stano dimostrando che nella mafia ci sono,
eccome»”. Se non è zuppa pan bagnato, si direbbe in toscano.
Africo
rossa
C’è un’altra Africo oltre – accanto? – a
quella nera di Gioacchino Criaco e Francesco Munzi, violenta, lacrimosa. E a
quella inverosimile di Corrado Stajano, che si riedita immortale - Africo
infeudata a un prete, peraltro poco o nulla mafioso, un don Camillo del
sottogoverno. È quella di Rocco Palamara, a suo tempo celebrata, giusto prima
che il nero la ricoprisse. Palamara, rintracciato da Antonella Italiano alla
periferia di Roma per il suo mensile “In Aspromonte”, ha un’altra Africo: attiva,
imborghesita, anche nella contestazione, da “eretici anche tra gli anarchici,
ai quali io per primo mi accostai da autodidatta”. Un paese proiettato decisamente
verso il nuovo: “Il paese passava il periodo migliore della sua storia:
terminata la vita nelle baracche dei campi profughi, tutti avevano una casa
vera. Con i proventi degli emigrati c’era un livello di vita mai visto. I
ragazzi in età frequentavano al 90 per cento le scuole superiori”. Dacché
facevano appena le elementari in un’aula-stalla, gli “africoti “ primeggiavano
“da ogni punto di vista all’università di Messina” – allora la Calabria non
aveva una università.
Negli stessi anni i ragazzi partecipavano,
ad Africo e nei dintorni, nella cosiddetta “Locride”, in massa a manifestazioni
spontanee per la legalità: “Una mattina, mentre con mio cugino e mio fratello
passeggiavamo nel cortile per l’ora d’aria, al muro di cinta ci chiamò la guardia
per dirci che fuori della porta del carcere c’erano più di mille studenti che
reclamavano la nostra liberazione. Era il 30 aprile 1971, e quella fu, credo, la
prima manifestazione antimafia in assoluto”.
Rocco Palamara ha una storia
movimentista unica in Italia, benché ignota. Ragazzo, fu “come tutti” nel Pci,
nella federazione giovanile. Manifestando spesso: “Facevamo frequenti scioperi
che vivevamo come feste popolari, bloccando, se era il caso, i treni e la
Statale 106”. Fino al 1968. Quando Palamara fondò un circolo anarchico, dice,
“maoista”. Ma anche questa esperienza si dissolse. Palamara allora si attaccò
alla ‘ndrangheta, che metteva i tentacoli, “legata a un noto personaggio del
sottobosco democristiano”. Nella disattenzione dei Carabinieri e con la
complicità dei tribunali. È uno spaccato di verità che Palamara dà, che gli
storici purtroppo trascurano, ma non chi quegli anni ha vissuto, sul “ruolo
nefasto di moltissimi inquirenti e magistrati che, invece di combatterli, favorirono
i boss nella loro conquista mafiosa della Calabria”. La vecchia mafia, l’“onorata
società”, si era dissolta o era marginale, e mai avrebbe pensato di essere rigenerata
dallo Stato, e anzi”mafiosizzata”, con le mani sull’economia – questo non lo
dice Palamara, ma è quello che è avvenuto, a cui si riferisce.
I Palamara non erano mafiosi, ma armati
sì. I giovani, perché i genitori di Rocco se n’erano andati a Milano, dove facevano
i panettieri. Dopo le prime spedizioni punitive subite dai mafiosi di paese, Rocco
prese la pistola e sparò anche lui. I Carabinieri addossarono la colpa a lui. Rocco
allora andò in caserma per autodenunciarsi, ma come legittima difesa, dopo le
angherie e le sparatorie a scopo intimidatorio subite. Fu l’inizio di una lunga
persecuzione, da parte dello Stato. I giudici incolparono Rocco Palamara di
rissa aggravata e tentato omicidio, lui e non i mafiosi. In concorso col
fratello Bruno, 17 anni, che non c’era nella scena della sparatoria, e il
cugino Salvatore, 16 anni, con il quale Rocco era seduto sulla porta di casa al
momento dell’arrivo dei sicari. Diciotto mesi di carcere, tutt’e tre, fino al
processo con assoluzione. Non uno dei sicari e dei mandanti venne perseguito.
Né allora né dopo, per i tanti attentati che i Palamara subirono. Neanche per
l’azzoppamento a fucilate dello stesso Rocco nel 1975. Anzi, per l’uccisione a
fine 1976 del cognato Salvatore Barbagallo, insabbiarono le indagini.
Al contrario, quando un piccolo fascista
di un paese limitrofo denunciò un getto di benzina sulla sua auto e ne accusò
due fratelli di Rocco, Bruno e Gianni, i due furono subito arrestati. E quando
dimostrarono che si trovavano a Torino al momento del fatto, i giudici li incolparono
lo stesso come mandanti. E li condannarono a cinque anni di prigione.
Sono rimasti invece ad Africo i Criaco.
Gioacchino, al quale è dovuta la leggenda nera, e la mitografia della gente
povera – anche se i Criaco di Africo sono professionisti. Eccetto il fratello minore
dello scrittore, killer di mafia. Un omonimo del fratello, Pietro, ora insegnante
nei dintorni di Torino, è stato nell’estate del 1985, durante le vacanze
scolastiche a Africo, autore del film “Terrarossa”, ispirato al racconto “La
Teda” di Saverio Strati. Una Maria Criaco pubblica una poesia sullo stesso
fascicolo di “In Aspromonte” che
registra l’incontro con Rocco Palamara.
Africo nera – 2
La storia nera di Africo è legata
bizzarramente ai Criaco. Pietro Criaco ricorda il suo film “Terrarossa” su “In
Aspromonte” con astio. Il suo contributo al mensile titola su internet “Il film
«Terrarossa» fu un plagio del regista Molteni”. Il mensile evita questo titolo,
una pagina dando ai protagonisti locali dell’impresa, amici e compagni del
giovanissimo regista con la sua cinepresa da amatore. Un film della cooperativa
“Il grido”, antonioniana, dice una locandna dell’epoca, ma questo Criaco oggi
lo dimentica. È invece avvelenato col regista Pietro Molteni che nel 2001 ha
tratto da “La Teda” un film commerciale, con lo stesso titolo di Criaco,
bisogna dire. E con Walter Pedullà, allora presidente della Rai, che non comprò
il suo film. Ma anche Strati, a cui Pietro Criaco andò a far vedere il film a
Scandicci, si mostra tiepido nel ricordo
dello stesso improvvisato regista.
La storia propriamente nera di Africo è
quella dell’altro Pietro, il fratello di Gioacchino. Un killer di mafia, a
Africo, Milano e dintorni, e in terra straniera. Il vero personaggio e la vera
storia che Munzi ha girato, il cui “Anime nere” non ha nulla a che vedere come
soggetto - in parte come personaggi ma in altro contesto - col romanzo di
Gioacchino, solo il titolo hanno in comune. La vicenda del film è invece quella
di Criaco jr., Pietro. Gioacchino assicura alla “Stampa” che Pietro “non ha mai
commesso un omicidio”. Ma la Polizia non lo crede. Pietro era uno dei trenta
ricercati più pericolosi, anche se fu arrestato, la notte di Natale del 2008,
in famiglia con la moglie, Nadia Romeo, e i due figli - lo arrestò il capo della Mobile di Reggio Calabria Cortese, che per questo fu promosso a Roma, e poi a capo dello Sco della Polizia, il servizio operativo centrale.
Pietro si era illustrato sui giornali
per aver voluto, latitante, dare l’estremo saluto al suo capomafia assassinato,
il 13 ottobre 1997, dalla “famiglia” rivale, i Cataldo, con una scarica di
pallettoni che gli avevano quasi staccato il capo. Si era fatto strada tra i
partecipanti al lutto, e chinatosi sul cadavere lo aveva baciato. Quella sera
stessa uno dei Cataldo era stato assassinato, e altri subirono la stessa sorte
nei giorni seguenti. Agli atti Pietro, al 41 bis, è classificato come “elemento tra i più pericolosi e violenti della
famiglia Cordì, inseparabile compagno di Cordì Salvatore (figlio di Cosimo),
cono il quale è stato concorrente in diversi fatti di sangue. La sua attività
spiccatamente «militare» è tenuta molto in considerazione dai membri della
famiglia Cataldo”.
In un' intercettazione prima del’assassinio di Cosimo Cordì,
maggio 1997, si sente Pietro Criaco parlare di un fallito agguato contro due
avversari e dell’organizzazione di un nuovo attentato: “Io non so come cazzo
sono usciti... Gli è andata bene, gli è andata... Vediamo il bazooka di
cacciarlo fuori... Che gli si caccia il cuore di fuori e glielo si mangia... Si
deve menare..”. È in tutto il soggetto di
“Anime nere”.
Quando “ho visto il film per la prima
volta a Venezia, ho incomimciatpo a piangere dopo pochi minuti e non ho
smesso”, dice Gioacchino Criaco a “La Stampa” 17 settembre 2014. Dice che lo
stesso avviene a Africo e a Catanzaro: “Tutte le persone di Africo, presenti in
sala, piangevano. È successo anche ieri durante l’anteprima a Catanzaro. La
gente comune, quelli della mia estrazione, piangerà”. Criaco non sappiamo, che
si è laureato alla Cattolica a Milano e vi esercita. Ma la gente comune in
Calabria non piange, quando mai?
Il
film di Munzi-Rai è violento in tutto, politicamente scorretto: il lutto come
esibizione, la crudeltà, la sopraffazione, nonché il tradimento costante, dai
parte dei deboli, di cuore e di denaro, e la virtù – l’applicazione, il lavoro,
gli affetti familiari – ridicolizzata in culti insensati, in pratiche bizzarre,
nella stupidità. Con le “umili origini” sempre, e l’“estrazione”, mentre magari
dire delinquenza sarebbe stato meglio. Il padre dei Criaco, Domenico, è
stato assassinato nel 1993 in una faida di mafia, Gioacchino aveva 28 anni, era
già a Milano.
leuzzi@antiit,.eu
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