La rivoluzione
ha bloccato l’ammodernamento e la democazia. La rivoluzione del 1917, di cui lo
stalinismo o sovietismo, perpetuato di fatto fino a Gorbaciov, fu figlio non
bastardo. Il disinvolto marchese de Custine l’aveva previsto nel 1839: la
reazione è insostenibile, se non ci sarà il liberalismo ci sarà la rivoluzione,
“una più terribile di quella di cui l’Occidente risente ancora gli effetti”.
Non poteva prevedere che la rivoluzione sarebbe stata essa stessa reazionaria,
cortocircuitando la Russia nella fase di europeizzazione – più avanti allora di
molta Europa, forse della stessa Italia, diritti civili compresi. L’aveva previsto
dopo un viaggio breve a Pietroburgo, con una coda a Mosca, seppure imbeccato da
informatori russi d’eccezione, i principi liberali - alcuni peraltro vicini
allo zar. Il centralismo statalista è diventato legge e tallone di ferro
implacabile, eliminando ogni individualità e sbarrando ogni apertura sociale,
in una finta uguaglianza che era in realtà un regime di polizia. Bene. Ma
perché si ristampano queste “Lettere” oggi?
“La Russia nel
1839”, poi “Lettere dalla Russia”, fu un classico dell’antisovietismo nella
guerra fredda, a un secolo dalla pubblicazione nel 1842. Si ripubblica in una
delle edizioni approntate in quegli anni, quella di Pierre Nora nel 1970. Per
dire che siamo in presenza della stessa Russia? Le condizioni formali ci sono:
le sanzioni, le basi militari, la Cia con la disinformacija. E il marchese de Custine: “La Russia vede
nell’Europa una preda che le sarà consegnata presto o tardi dai nostri
dissensi: fomenta da noi l’ananrchia nella speranza di profittare della
corruzione”. La corruzione, il dissenso, la Russia, la politica di potenza, anche
gli ingredienti ci sono tutti. Ma la Russia, malgrado Putin, è evidentemente
un’altra, e il lettore non ci si ritrova. Si legge il marchese più per il
contorno – per il personaggio - che per la sua Russia.
Guerra fredda
De Custine fu
riscoperto nei primi anni 1950, con un parallelo tra la sua Russia, di Nicola
I, e quella di Stalin. Boris Souvarine, l’ex animatore della Terza
Internazionale, filosovietica, e del partito Comunista francese alla nascita, vi
aveva già accennato nel 1935, nella sua biografia rivelatrice di Stalin. Ma il
richiamo divenne opinione nella guerra fredda. George Kennan, l’ex ambasciatore
americano a Mosca, lo ravvivò nel 1969, contro il breznevismo, “The Marquis de
Custine and his «Russia in 1839»”, la raccolta di lezioni da lui tenute a
Oxford nel 1969: “Pur ammettndo che non era un ottimo libro sulla Russia nel 1839,
siamo di fronte al fatto inquietante che è un libro eccellente, probabilmente
il libro migliore, sulla Russia di Josef Stalin, e non un cattivo libro sulla
Russia di Breznev e Kossighin”. Il suo predecessore a Mosca, il generale Bedell
Smith, ne aveva pubblicato un estratto nel 1951, intitolandolo “Un viaggio per
il nostro tempo”, con la premessa: “Avrei potuto prendere alla lettera molte
pagine del suo diario e, sostituendo nomi e date di oggi a quelli di un secolo
fa, averli mandati al dipartimento di Stato come mie relazioni ufficiali”. Il
1839 di Custine “era la realtà del 1939 e la quasi realtà del 1969”, conclude
Nora, lo storico francese che ha collazionato e presenta questa edizione –
circa un terzo del voluminoso originale in quattro volumi (l’originale si
ritrova nella collezione “Thésaurus” di Actes Sud, con prefazione di H.Carrère d’Encausse, l’unica edizione
integrale dopo il 1853, dopo le prime dal fulminante successo).
La teoria
allora prevaleva del “raschia il sovietico e ci trovi un russo”, sulla traccia
della battuta napoleonica “raschia un russo e ci trovi il tartaro”. In questa ottica il marchese è
stato montato a equivalente di Tocqueville, le “Lettere dalla Russia” come “La
democrazia in America”. Due opere invece imparagonabili.
È vero che Custine
decise il viaggio in Russia sull’onda del successo di Tocqueville. E che il
successo di queste “Lettere” fu
altrettanto immediato e vasto come quello della “Democrazia in America”: quattro
edizioni in tre anni, più numerose edizioni pirata in Belgio, e duecentomila
copie vendute all’estero. Col plauso di Herzen, il fuoriuscito di maggiore
peso: “Il libro più interessante che sia stato scritto sulla Russia da un
straniero”. Al successo contribuì l’interesse per la Russia, che, benché
europeizzata da poco, veniva considerata “amica e sorella” nella Francia della
Restaurazione. Per i legami che l’aristocrazia emigrata nella rivoluzione, e lo
stesso Chateaubriand, “patrigno” di Custine, vi avevano allacciato. Una
vicinanza cui contribuivano anche i gesuiti, cui il marchese era devoto, col
loro collegio di Pietroburgo. Malgrado le ferite che la Russia infliggeva alla
Polonia, “la Francia del Nord”. Ma non c’è molto della Russia nell’opera di
Custine.
Le “Lettere”
sono opera di repertorio, condita con fonti giornalistiche. Vera Milchina, della università di San Pietroburgo, “«La Russie en 1839» du marquis
de Custine et ses sources contemporaines”, “Cahiers du monde russe”
(disponibile online http://monderusse.revues.org/42), riduce le fonti all’ambasciatore francese a San
Pietroburgo, Prosper de Barante, che Custine non cita, e ad alcuni giornali parigini.
Come fonti
Custine cita in appendice un professore di russo a Parigi, Girard, e un
Grassini, “fratello della celebre cantante”, oltre a imprecisati principi russi
(cui Nora dà però plausibili nomi) incontrati in Germania, dove decise di fare
il viaggio. Le testimonianze di Girard e Grassini sono successive, raccolte nel
1842, mentre il libro veniva scritto. Girard è un soldato di Napoleone fatto
prigioniero, il cui racconto certifica “l’inumanità dei russi”. Anche Grassini,
incontrato a Milano nel febbraio 1842, è stato in Russia nel 1812, con l’armata
del viceré d’Italia: prigioniero a Smolensk, conferma “la ferocia dei soldati
russi”, ma vuole testimoniare anche la bontà della popolazione. Soprattutto
delle donne, “contadine o grandi dame”. Non un grande racconto.
Oggi per di più
non si può dire “raschi Putin e ci trovi Stalin”. E dunque? Ha ragione Hélène
Carrère d’Encause: quest’opera “testimonia il difficile incontro tra la Russia
tesa verso l’Europa e l’Europa, che non seppe mai come trattare e comprendere
la Russia”. Custine ha solo “mal visto ma ben indovinato”, come dice lui
stesso, lo zarismo, e lo sviluppo inevitabile di quel sistema, la rivoluzione. A
ogni pagina è questione di dispotismo: la Russia è “l’incubo di un governo assoluto
e di una nazione di schiavi”. Putin? Volendo, ce n’è anche per lui: dello zar
Nicola I si dice che “sfida l’Europa invece d’incensarla”. Ma è uno dei modi
dire della stessa cosa, il marchese è insistente oltre che monotono. La solfa
se la fa ripetere perfino dallo zar, in un’intervista immaginaria: “Il dispotismo
esiste ancora in Russia, poiché è l’essenza del mio governo; ma risponde al
genio della nazione”. Allo zar fa pure mettere sotto accusa, in vece sua, il
regime rappresentativo che non gli era simpatico. Che non è, premette, “la repubblica
delle città antiche”: “Comprare i voti, corrompere le coscienze, sedurre gli
uni e ingannare gli altri”.
Ritorna dal
viaggio in qualche modo conciliato con la monarchia costituzionale: “Andavo in
Russia per trovare argomenti contro il governo rappresentativo, ne ritorno partigiano
delle costituzioni”. Ma con una sola idea della Russia: la servitù. Volontaria.
Di automi. Eccetto gli spioni – compreso il mistificatore degli stranieri,
quello che imbroglia le carte (la disinformacja
già all’opera). Di burocrati. Inefficienti. Per concludere – una conclusione
ribadita a ogni pagina: “La vita sociale in quel paese è una cospirazione permanente
contro la verità”. “La civiltà russa è ancora così vicina alle origini che somiglia
alla barbarie”. Di citazioni del genere ce n’è una infinità: “Un uomo sincero,
in quel paese, passerebbe per pazzo”.
Il paese? Il modo
di vivere? Di pensare? La gente? C’erano borghesi nella Russia del 1839, ma qui
non ci sono. E nemmeno i nobili. Solo i despoti. Pietro il Grande molto, un po’
di Nicola I, moltissimo di Ivan il Terribile, di cui un centinaio di pagine o
poco meno non bastano a dire tutta la malvagità - il ritratto di Ivan, benché
copiato da Karamzine, storico prevenuto, il Tacito degli zar, è però anche
terribilmente vivo, ben più sfaccettato e raccapricciante di quello del famoso
film di Eizenstein. Metà del libro è su Pietroburgo, che gli riesce ostica – il
marchese ne parla malissimo, ma anche benissimo. Il resto è contro i russi, più
che contro la Russia, per il “fanatismo dell’obbedienza”, “un paese dealle
passioni sfrenate o dai caratteri deboli, dei rivoltati o degli automati, senza
intermediario tra il tiranno e lo schiavo”. Mosca, intravista, è alttrettanto
ostica: “città mostruosa”, “a Mosca si
dimentica l’Europa”. Ma poi “tutto qui fa paesaggio”, e la città richiama, “non
si saprebbe dire perché, Persepolis, Baghdad, Babilonia, Palmira, romanzesche
capitali dei paesi favoolosi la cui storia è una poesia e l’architettura un
sogno”… La vechia e futura capitale risolve nel Cremlino, attorno alle malefatte
di Ivan, e nella confutazione di Mme de Staël, che Mosca aveva detto “la Roma
del Nord”: no, “Roma è più estranea a Mosca di Pechino”.
Il riassunto
finale, una ventina di pagine, basta e avanza: “I russi non immaginano niente”.
“I russi non sanno che copiare, senza migliorare”. Le donne sono squadrate,
villose, pulciose. Eccetto la zarina, che s’intrattiene col marchese in varie occasioni
come una gentildonna borghese, con scambio salottiero di repartee – il marchese ha di questi svarioni. Gli uomini invece
sono belli, bellissimi. Il marchese lo
ripete anche nel riassunto finale fino al deliquio, “molto amabili e
molto infelici”. Sono però pure il contrario: greci del basso impero, cinesi, orientali,
liberti, barbari, “grossolani o indelicati come i Calmucchi, sporchi come i
Lapponi, belli come gli angeli, ignoranti come i selvaggi”. A cosa credere? Ma
gli uomini, anche se russi, introducono al marchese, il vero protagonista delle
“Lettere”.
Un marchese divino
La storia del
libro e quella di Custine sono meglio della sua Russia. La lettura migliore è
del romanzo che Nora gli costruisce attorno, nella prefazione e nelle rubriche
a corredo. Il romanzo della vita anzitutto. Figlio di una madre troppo bella, Delphine,
che darà il nome all’eroina e il titolo al romanzone “italiano” di Mme de Staël,
per vent’anni amante di Chateaubriand, e di un padre ghigliottinato, come il
nonno, Astolphe de Custine si libera quando lo scandalo lo mette al bando della
società dei suoi pari. Quando fu trovato semimorto, nel quartiere equivoco di
Saint-Denis, bastonato dai commilitoni di un artigliere col quale aveva
convegno galante a pagamento. Si ristabilì, e prese a convivere liberamente col
giovane inglese Édouard de Sainte-Barbe. Per alcuni anni con Édouard e con un
giovane bello e spiantato nobile polacco, Ignace Gurowski. Fino a che questi,
dopo cinque anni di intimità e lunghi viaggi col marchese, non sedusse l’infanta
Isabella di Spagna, sottraendola al convento dove la famlglia reale spagnola l’aveva
rinchiusa, e la sposò. Sempre nobilissimo, malgrado l’ostracismo, e molto pio
malgrado il “vizio” come lui lo chiamava. Amante anche per questo dell’Italia,
dove era quasi sempre - nel 1850 sarà in udienza privata dal papa Pio IX.
Dogmatico, di “fede ardente” lo dice Nora, da mistico.
Ricchissimo, malgrado
due o tre rovesci di Borsa, dà anche ricevimenti e feste alla migliore intellettualità
di Parigi, avendo deciso che il suo futuro sarà di scrittore. E che nomi: Hugo,
George Sand, Théophile Gautier, Balzac, che molto lo consiglierà e aiuterà editorialmente,
Lamartine, Baudelaire, che ne scriverà l’elogio in morte. È anche corrispondente
di Rahel Varnhagen a Berlino, “il romanticismo in persona”. E col marito di
lei, il diplomatico prussiano Karl Augustin Varnhagen von Ense, il miglior
conoscitore della Russia, A Varnhagen marito le “Lettere” devono molto, oltre
che a una serie di principi russi incontrati in Germania e a Pietroburgo, Alexander
Turguenev, zio del futuro romanziere, Kozlowski, Viazemski, Golitsine, Ciadaeev
– ma le vere fonti sono altre, come si è detto. A Vienna, in coppia con Gurowski nel 1835,
incontra più volte Balzac, che è venuto a conoscervi Mme Hanska, dal quale ha
molti consigli pratici. Anche il viaggio in Russia fa con Gurowski, e col
cameriere italiano Antonio.
Viaggia sempre.
Ai viaggi l’aveva iniziato la madre nel 1811, quando aveva 21 anni, portandoselo
al seguito in una peregrinazione di tre anni per mezza Europa, in compagnia del
suo nuovo amante, lo psichiatra Koreff. Durante la quale il marchese mise a punto
il suo genere: resoconti di viaggio epistolari immaginari, molto elaborati.
Compresa l’intervista, dopo morte, al personaggio importante, artificio che
farà fortuna.
Prima di Saint-Denis
aveva tentato, eroico, il matrimonio. Dopo aver rifiutato varie candidate della
madre, aveva scelto una giovane remissiva, alla quale aveva anche fatto un
figlio. Entrambi, madre e figlio, morirono presto. E Custine si emancipò. Ai ricevimenti
presiedeva il suo compagno di sempre Edouard de Sainte-Barbe. A cui il marchese
era infedele, ma di cui farà il suo erede universale – i parenti contestarono
il testamento ma persero la causa
(frattanto Édouard era morto).
Con i romanzi
non ebbe successo. Uno, “Aloysius”, ha la stessa storia dello stendhaliano
“Armance”, e fu scritto nello stesso anno, 1827, probabilmente su un aneddoto
vero, o una situazione che i due scrittori, che si frequentavano, conoscevano o
si erano inventati. Ma il suo è noioso, come i suoi altri romanzi. Le lettere
invece ebbero successo, dalla Calabria, dall’Italia, dalla Germania. Queste
dalla Russia più di tutte. Ma subito poi dimenticate. Con le “Lettere”, conclude Nora, “Custine ha scritto
a modo suo il suo «Viaggio al termine della notte»”, anche lui reazionario radicalmente
anarchico: “Anche a lui non è stato perdonato”. Beh, no.
Astolphe de
Custine, Lettere dalla Russia,
Adelphi, pp. 363 € 20
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